di Mattia Gelosa
Era una serata che pareva come tante per la borghesia parigina, una serata in cui i caffè si riempivano di persone interessate a qualche chiacchiera, del buon vino e qualche spettacolo, ma qualcosa si stava già diffondendo nell’aria: due inventori, i fratelli Auguste e Louis Lumière, stanno per presentare al Grand Cafè del Boulevard des Capucines la loro ultima invenzione: il cinematografo.
Davanti a una platea di curiosi, in quella sera del 28 dicembre 1895, venivano proiettati i primi filmati realizzati dai due fratelli: una sorta di lanterna magica che proietta immagini in modo così veloce che pare siano animate. La prima, La sortie de l’usine Lumiére, cioè L’uscita dalla fabbrica Lumière, dura solo 45 secondi ed è una ripresa fissa in bianco e nero, ma viene considerata storicamente come l’inizio del cinema.
Dei moltissimi filmati realizzati dai fratelli francesi ne rimangono gran parte e in tutti è possibile riscontrare alcuni elementi comuni: una ripresa con macchina da presa fissa, ampia profondità di campo, persone che sanno di essere riprese e dialogano o salutano l’operatore, scene di vita quotidiana non alterate in cui i personaggi si muovono in modo naturale e disordinato, punto di vista centrale. Basta ciò per definire una prima poetica del cinema? L’opinione comune è che sia così, visto che poco dopo un altro francese, George Meliés, inizierà a proporre film che sfruttano trucchi di montaggio o mascherini per presentarci situazioni surreali e meravigliose: come non ricordare, ad esempio, il suo Le voyage dans la Lune (Viaggio nella Luna) del 1906?
Il cinema, dunque, nasce e si divide subito in due prototipi di genere, quello del realismo e della narrazione dei Lumière e quello spettacolare e delle attrazioni di Meliés, ma alcune precisazioni sono doverose.
Da subito l’intento della nuova arte pare chiaro: come già fu per pittura e fotografia, essa nasce per fissare un istante di tempo nell’eternità, per rendere immortale l’effimero e, dunque, riprendendo lo storico dell’arte e docente David Freedberg, per richiamare il principio della mummia e vincere la morte.
Proprio questa base di partenza spiegherebbe come mai ognuna di queste forme artistiche si sia inizialmente sviluppata con l’intento di regalarci immagini di uomini, così da avere ricordi di loro anche dopo la fine dell’esistenza: i Lumière cominciano con i loro operai, poi invitati in sala per rivedersi sullo schermo e ridere di quel nuovo e strano senso di sdoppiamento. Io sono qui, in platea, o sono anche nell’immagine? Domanda banale, ma da questo quesito nacque la leggenda metropolitana che vuole che alla prima proiezione de L’arrivée d’un train en gare de La Ciotat (L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat) il pubblico si spaventò pensando di essere colpito dalla locomotiva in avvicinamento, come se essa fosse reale.
A questo aneddoto è utile collegarci per raccontare un’altra questione, ancora aperta e discussa, che ruota attorno al cinema: può esso essere considerato una forma d’arte più reale delle altre?Osserviamo il primissimo film, l’uscita degli operai: sembrerebbe una prima forma quasi di documentario, il semplice posizionamento di un apparecchio di ripresa e la sua successiva accensione, quindi qualcosa di assolutamente reale, una sorta di documentario ante litteram. Qualcosa, però, affievolisce l’effetto di realismo: gli operai hanno abbigliamento troppo composto e pulito per essere del tutto credibili, così come la loro uscita, con due file che si dividono perfettamente verso destra e sinistra partendo dal centro. Non si tratta di molto, ma il dubbio che la scena sia preparata sovviene.
Il cinema, dunque, potrebbe davvero aver avuto grande successo sin da subito per la sua illusione di realtà, ma non è scontato pensare che gli spettatori credessero davvero a quanto vedevano, come oggi è opinione comune: gli operai di allora avrebbero capito ben prima di noi che abiti e compostezza dei loro colleghi ripresi erano fittizi, così come, sull’altro versante, i trucchi di Meliés piacevano proprio per essere quasi dei giochi di prestigio col cinema.
L’avvento del documentario apre un altro complesso capitolo sulla dicotomia reale/irreale, ma quello che piace di questa nuova arte è prima di tutto il movimento e la conseguente capacità che ha di raccontare, nel vero senso della parola, delle storie. Il cinema è azione nel tempo, mentre pittura e fotografia sono singoli istanti: esse al massimo possono riassumere storie, tramite i cicli o le serie, fissandone i punti salienti e lasciando a noi il compito di collegarli e raccontarci la vicenda intera.
Cinema della realtà e cinema delle illusioni sono due strade diverse solo in apparenza, ognuna si fonde e incontra con l’altra in diversi momenti e questo vale non solo nel cinema delle origini, ma ancora oggi. Qualunque film racconti storie comuni o persino biografie ha indubbiamente elementi di finzione al suo interno, così come i generi più fantastici, quali horror e fantascienza, funzionano se io posso immedesimarmi nei personaggi, avere paura con loro o emozionarmi delle loro eroiche imprese.
I Lumière, possiamo dire alla fine di questo piccolo discorso estetico, non hanno inventato qualcosa che possa catturare il vero, ma hanno senza dubbio perfezionato un mezzo incredibile: un nuovo mondo da esplorare per la filosofia dell’arte, un nuovo mezzo di comunicazione di massa, una nuova forma di intrattenimento destinata a diventare un vero e proprio fenomeno ludico, oltre che economico.
Che piaccia o meno il cinema, è impossibile negare che il 28 dicembre 1895 il mondo, almeno un poco, sia cambiato per sempre.