Lo sguardo negato di Věra, in dissenso contro l’URSS

di Carmen Pellegrino  con Salvatore Giannella

Era l’atleta olimpica della Cecoslovacchia più vincente di tutti i tempi, ricordata per le medaglie d’oro e per  la protesta (foto) contro l’Unione Sovietica ai Giochi  del 1968.  Comincia con lei un viaggio attraverso le donne che,  con la loro vita, hanno cercato di cambiare il mondo.
Ci farà da bussola l’incitazione della pedagogista Maria Montessori  “Donne tutte: sorgete!”

Nel comune in cui vivo, Cassina de’ Pecchi alle porte di Milano, non esiste una via dedicata a una donna. Lo scopro, con triste sorpresa, leggendo un articolo ben fatto di un regista teatrale e poeta, Giuseppe Caccamo, sulla Gazzetta della Martesana. Il testo è dedicato a una grande cassinese, Antonia Frigerio (Cassina 1904 – lager di Ravensbruck 1945) che, conoscitrice dei protagonisti della Resistenza milanese, una volta arrestata non rivelò neanche sotto tortura i suoi segreti, finendo uccisa in un campo di concentramento nazista (una pietra d’inciampo oggi la ricorda davanti alla casa milanese dove abitava, in via Santa Eufemia 19).

Approfondendo la ricerca, scopro che questa assurda realtà toponomastica è comune a tutt’Italia. Dalle Alpi alla Sardegna le vie intitolate alle donne sono, in media, 8 su 100. Ce lo ricorda la professoressa Maria Pia Ercolani, fondatrice del gruppo “Toponomastica al femminile”, gruppo vincitore a dicembre scorso del primo premio dell’Unione Europea destinato alla società civile. “Più nomi di donne meritevoli a vie e piazze”, è stato l’auspicio della cerimonia svolta a Bruxelles. E Giannella Channel parte con un viaggio tra le vite di donne non comuni, non solo italiane, con l’augurio che gli amministratori da queste storie colgano l’occasione per dare visibilià a donne che hanno agito spesso nell’ombra e per consegnare alla memoria dei cittadini di oggi e di domani grandi donne che hanno scritto la storia delle comunità.

1968: basta solo nominarlo quell’anno per far venire in mente i giovani in piazza, la contestazione, i grandi movimenti della società, la richiesta di un mondo migliore fatto di eguaglianza e di pace. Quell’anno il mondo è diviso in due blocchi geopolitici: il Patto Atlantico, legato alle posizioni liberal capitalistiche degli Stati Uniti d’America, e il Patto di Varsavia vicino alla dottrina comunista dell’Unione Sovietica.

Nella Cecoslovacchia dell’epoca, inserita nel Patto di Varsavia, diventa primo ministro Alexander Dubcek. Inizia così un processo di cambiamento, un nuovo socialismo “dal volto umano” che si allontana dal cosiddetto “socialismo reale”, affermazione portata avanti dai sovietici con a capo Leonid Breznev convinti di essere gli unici a proporre una corretta visione degli ideali comunisti, in contrasto con il revisionismo marxista sempre più dilagante.

Questo nuovo processo di cambiamento culmina con il “Manifesto delle 2000 parole” di Ludvik Vaculik, breve testo di dissenso verso il partito, un ammonimento contro il declino umano impresso dal regime e una serie di richieste per l’avanzata della democrazia nel Paese.

Numerose personalità dello sport e della società aderiscono al Manifesto e tra i firmatari c’è anche lei, Vera Caslavska, la sportiva cecoslovacca più decorata della storia (sette ori e quattro argenti la rendono la quattordicesima atleta più medagliata ai Giochi olimpici e la ginnasta con più vittorie a livello individuale. Senza contare quattro titoli mondiali e undici titoli europei).

La reazione dell’Unione Sovietica è durissima: il Manifesto delle duemila parole risveglia il pugno duro della “dottrina Breznev”. Il 20 e il 21 agosto 1968 i carri armati sovietici invadono il territorio cecoslovacco, vengono cancellati otto mesi di riforme della Primavera di Praga e viene data la caccia ai firmatari del Manifesto.

Vera fugge, teme per la sua vita. Mancano solo due mesi all’inizio delle Olimpiadi di Città del Messico. Si saprà poi che Vera termina la sua preparazione atletica nella regione della Moravia, aggrappandosi agli alberi facendo del bosco la sua palestra, alzando sacchi di patate.

Nessuno sa dove sia ma le viene concessa l’autorizzazione per le Olimpiadi. Vera si presenta direttamente in aeroporto, sa che in un luogo pubblico e affollato non le può accadere nulla. È stanca e fuori allenamento, sarà dura competere con le atlete russe, autentiche macchine da guerra.

Vince l’oro al volteggio e alle parallele, alla trave arriva seconda senza però non poche polemiche. Ma Vera sta per entrare nella storia dalla porta principale!

Nell’esercizio del corpo libero, Vera (alta 1 metro e 60 , peso 58 chili, numeri impensabili per una ginnasta di adesso) si esibisce sulle note del “ballo del Sombrero”, una canzone popolare messicana, attirando su di sé l’amore di tutto il pubblico locale. È senza ombra di dubbio medaglia d’oro.

Dietro le pressioni di un delegato russo, però, la giuria prende una decisione inspiegabile e aumenta il voto delle qualificazioni della ginnasta russa Larissa Petrik, che si trova quindi a dividere la prima posizione ex aequo con Vera.

vera-caslavska

Ecco, fermiamoci un attimo.
È il 23 ottobre 1968, Vera Caslavska e Larissa Petrik sono pronte per ricevere la medaglia d’oro ex aequo dal delegato del Comitato Olimpico Internazionale (CIO). La prima a salire è Larissa, volto sorridente, felice. È poi il turno di Vera. Occhi grandi, capelli biondi ancor più risaltati dalla tuta blu con la quale si è esibita poco prima. C’è qualcosa però che la turba. Lo sguardo non è sereno, abbozza un sorriso, il suo volto contrasta con l’evidente soddisfazione della sua collega russa. È il momento dell’inno.

Quando risuonano le note dell’inno sovietico Vera fa un gesto semplice, spontaneo, elegantissimo. China la testa verso destra, con dolorosa grazia, occhi bassi. Non lo vuole ascoltare quell’inno. Rifiuta di guardare quella bandiera con falce e martello che rappresenta gli invasori del suo Paese. Lo aveva già fatto durante la premiazione della Natalia Kuchinshaya, vincitrice della trave, quando aveva occupato il secondo gradino del podio. Ma adesso è diverso. Tutto il mondo la guarda. Quello sguardo negato è la rappresentazione del dissenso, una scena muta che vale più di tanti proclami. Come i velocisti statunitensi Tommie Smith e John Carlos in quella stessa Olimpiade hanno alzato i pugni sul podio dei vincitori sui 200 metri piani per rappresentare al mondo la segregazione di cui i neri sono vittime in America, così Vera gira il viso e non onora la bandiera del paese che schiaccia il suo popolo.

Vera è consapevole della forza dirompente di quel gesto, sa che potrebbe rappresentare la sua morte sportiva. Tornata in patria, infatti, viene messa sotto indagine per “influenza scorretta” diventando “persona non gradita”, eppure ha il divieto di espatriare, deve rimanere a Praga. Il nuovo governo filosovietico le chiede di ritrattare tutto, di togliere la sua firma al Manifesto delle duemila parole a cui aveva aderito. Vera non lo fa. Il regime la costringe quindi a una vita di stenti, a lavorare facendo le pulizie. Si ribellerà anni dopo. Un giorno va al ministero dello Sport in tuta da ginnastica e dichiara che non andrà via di lì senza un lavoro. Avrà un ruolo in federazione, ma soltanto come consulente.

Il regime, non potendo cancellare la Caslavska sportiva, la cancellerà come persona.

Viene riabilitata dopo la caduta del Muro di Berlino diventando presidente del comitato olimpico della Cecoslovacchia.

Nella sua vita tormentata, però, ci saranno altri dolori come la morte del proprio marito Josef Odlozil (connazionale e mezzofondista, sposato in una cerimonia glamour seguita da una grande folla, cui accorrono molti messicani diventati tifosi di un’atleta al culmine della sua gloria). Vera l’aveva sposato proprio durante le Olimpiadi di Città del Messico: Josef viene ucciso nel 1993 dal loro figlio Martin, al culmine di una lite.

È troppo. Vera, la donna affascinante definita dai giornali “seconda donna più popolare al mondo dopo Jacqueline Kennedy”, cade in depressione e sceglie di scomparire evitando ogni apparizione pubblica.

Viene eletta membro del CIO e consigliera del presidente della Repubblica Ceca, Vaclav Havel (1993-2002), ma Vera è stanca, il suo volto, quegli occhi grandi, bellissimi sono segnati da una vita faticosa. Negli ultimi anni si è schierata contro la xenofobia e a favore della protezione dei profughi.

Muore il 30 agosto 2016 all’età di 74 anni per un tumore al pancreas.

La sua storia è diventata un docu-film intitolato Vera 68. Il suo paese l’ha nominata seconda atleta più importante del secolo scorso, dopo il maratoneta Emile Zatopek, ed è entrata a pieno titolo nell’Olimpo delle celebrità della ginnastica mondiale.

31 gennaio 2020

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