Un racconto di Luigi Picheca
Ho sempre pensato di essere un bravo bambino e poi un bravo ragazzo perché mi facevo in quattro per aiutare mamma nelle faccende domestiche ed ero diventato bravo a lavare i piatti, a dare la cera, a pulire i vetri e perfino a rammendare i calzini.
Il mio rapporto con mamma era il classico amore-odio di quei tempi tribolati e si andava verso il fatidico ’68, l’ anno delle ribellioni. La musica dei Beatles aveva già fatto la sua parte sconvolgendo il mondo della canzone e accendendo velenose discussioni tra i cantanti melodici e i nuovi urlatori, la punta dell’iceberg di tutte le rivendicazioni sociali pronte a esplodere.
Papà è sempre stato poco presente, lui era un capofamiglia alla vecchia maniera e pensava a lavorare per dare alla famiglia quello che meglio poteva.
Papà era un grande lavoratore e la domenica ci portava al Parco di Monza o al lago e poi si addormentava placidamente sulla sua sedia a sdraio preferita, lasciando a mamma la supervisione di noi figli.
Il mio rendimento scolastico non era eccellente ma nemmeno scarso e il mio maestro diceva spesso che mi impegnavo poco ma avevo delle buone potenzialità. Una volta, con mia grande sorpresa, è passato accanto a me durante un compito in classe e si è fermato di colpo chiedendomi se avessi copiato.
Poi è uscito di corsa ed è tornato col suo amico, il maestro con cui si alternava nel condurre le classi maschili del nostro paese in quinta elementare, e gli ha mostrato il mio compito, dicendo che aveva avuto ragione sulla mia valutazione in una precedente discussione con la direzione e chiedendogli conferma.
Era un compito di matematica di quarta elementare in cui avevo per comodità racchiuso le operazioni tra parentesi come in una espressione, e non era ancora parte del nostro programma di studio.
I suoi complimenti mi risuonano nelle orecchie ogni volta che ci penso e mi riempiono ancora di orgoglio e di emozione.
Purtroppo il mio maestro aveva azzeccato il suo pronostico e una volta passato alle medie mi sono bloccato per una serie di motivi.
Innanzitutto non studiavo, perché non volevo andare a scuola ma trovare un posto di lavoro come garzone di bottega come tanti altri miei amici che provenivano da famiglie numerose e davano un discreto apporto economico in casa. Io avevo questo pallino da quando anche i miei fratelli avevano lasciato la scuola per andare a lavorare e mi sentivo in dovere di dare il mio contributo.
Così mi sono fatto bocciare, convinto di dissuadere i miei genitori dal mandarmi inutilmente a scuola ma non ci sono riuscito.
La scuola in cui ero finito non mi piaceva neanche un po’. Era decadente, buia e si staccavano pezzi di intonaco dai muri e dai soffitti, inoltre le professoresse sembravano delle mummie, niente sorrisi e niente battute di spirito, il divertimento era bandito tra quelle mura.
Figuriamoci se io potevo sentirmi a mio agio in un posto così. Mi hanno bocciato per la seconda volta.
Avevo già perso due anni, i miei genitori non ne volevano sapere di mandarmi a lavorare e io avevo trovato un posto da garzone di nascosto presso un negozio di ortaggi e frutta lontano da casa durante le vacanze estive.
Il primo giorno di lavoro mi hanno messo a scaricare le patate dal furgone e io mi sono stancato parecchio. Il pomeriggio non mi sono presentato e ho preferito andare all’oratorio a giocare a pallone.
Per fortuna ci siamo trasferiti a Sesto durante l’estate e ho cambiato scuola, era una scuola più moderna e più luminosa e le nuove insegnanti erano giovani e divertenti. La classe era per la prima volta mista e mi hanno assegnato un banco vicino a una simpatica coppia di belle ragazze. Cosa potevo desiderare di più?
Non so perché ma quell’ambiente luminoso, simpatico e accogliente ha determinato in me un profondo cambiamento, da ultimo della classe sono diventato uno studente modello.
Mamma mi ha regalato una bella enciclopedia scientifica e mi sono appassionato alla chimica e ogni tanto portavo i miei esperimenti in classe e la prof di scienze ha chiesto alla Preside di metterci a disposizione il laboratorio, unica classe autorizzata!
Anche la nostra insegnante di francese era soddisfatta delle mie prestazioni, nella vecchia scuola non si parlava molto in francese, tranne nelle interrogazioni e negli esercizi di lettura, ma per il resto si parlava italiano.
La nuova insegnante, di madrelingua francese, esigeva che durante le sue lezioni si parlasse francese anche tra noi, una full immersion alla quale non ero abituato e che ha reso difficile il mio inserimento iniziale.
Per fortuna sono predisposto a imparare le lingue e presto mi sono portato alla pari degli altri e anche meglio, perché quando entri nella mentalità di pensare nella lingua che stai imparando, tutto diventa più facile e immediato.
Mio padre si era ammalato nel frattempo di un male oscuro. Non si riusciva a capire cosa fosse, ma in casa lo si vedeva sfiorire e si faceva largo il dubbio che si trattasse di un cancro.
Dentro e fuori dagli ospedali e qualche parentesi di quel lavoro che gli piaceva tanto, istruttore di scuola guida, che lo aveva reso celebre in tutta Sesto.
Anche qualche mio professore era stato suo allievo e qualche volta lo fermavano per strada complimentandosi per la mia resa scolastica.
Un giorno papà mi chiama dal citofono e mi invita a scendere in cantina per aiutarlo a fare qualcosa, io scendo di corsa e mi trovo una bella bicicletta: il mio regalo.
Io in realtà desideravo un motorino e non una bici. Non so se sono stato capace di nascondere la mia delusione, ho ringraziato papà e sono tornato a studiare.
Non ho più pensato a questo episodio per tanti anni, ci ho ripensato di recente , da quando mi sono ammalato di Sla, perché ho più tempo per riflettere sulle cose e sui miei errori di gioventù e di adulto. E di cose da farmi perdonare ne ho parecchie.
Papà però non c’è più e mi sarebbe piaciuto poterci pensare prima per chiedergli scusa del mio comportamento perché, così malato come era e con quei pochi soldi che gli erano rimasti, aveva trovato la forza di farmi il suo ultimo regalo.
Volevo aggiungere una ultima riflessione ma non ci riesco, le lacrime mi rendono difficile scrivere col mio pc a puntamento oculare e le emozioni mi hanno fatto dimenticare ciò che avevo in mente.
Perdonatemi anche voi: ho voglia di pregare per i miei genitori.