di Daniela Annaro
Su uno sfondo anonimo, privo cioè di qualsiasi ambientazione o prospettiva, un bimbo in alta uniforme suona il piffero. Edouard Manet (Parigi 1832- 1883) dipinge questa tela nel 1866, di ritorno da uno dei suoi viaggi in Spagna. E’ l’opera-simbolo scelta per la mostra milanese (Palazzo Reale, fino al 2 luglio) dedicata al grande pittore francese. La stessa opera rifiutata, come le precedenti, dal Salon, il più importante appuntamento artistico della Parigi di fine Ottocento. La Parigi dei grandi sventramenti urbanistici che pensava alla modernità (intesa come Grandeur nazionalistica) e, che, nel contempo rifiutava l’arte di Manet, definendola di second’ordine. “Un imbrattatele”, così in molti lo definivano.
Ma che cosa c’era di così offensivo in quest’opera agli occhi dei Parigini di allora?
Le scelte stilistiche e di senso del grande pittore possiamo dire oggi come già lo affermavano intellettuali di straordinario valore quali Charles Baudelaire ed Emile Zola, suoi amici ed estimatori. Nella sua pittura, Manet raccontava il suo tempo, la realtà, non voleva realizzare opere per abbellire le pareti delle dimore borghesi e patrizie.
Edouard Manet apparteneva alla loro stessa classe, era nato in una famiglia colta e benestante, cresciuto tra alti funzionari dello stato e diplomatici di carriera. Era sì uno spirito ribelle e anticonformista, ma aveva capito girando il mondo, visitando i musei spagnoli, italiani, olandesi che un artista per essere tale, doveva interpretare quello che lo circondava, trovare nuovi linguaggi per esprimerlo e una propria cifra connotativa.
Nella Francia di Manet, in quegli stessi anni, cercavano di farsi avanti – e ci sarebbero riusciti – altri artisti dai nomi oggi amatissimi: gli impressionisti Degas, Monet, Renoir (e molti altri) anche loro osteggiati da critica e pubblico. Impressionisti che conosceranno il successo anche economico in tarda età, privilegio di cui non potrà godere Edouard scomparso a soli 51 anni.
La mostra che avrebbe dovuto essere ospitata da Torino, ma per voler della sindaca Chiara Appendino è stata rifiutata adducendo motivi di opportunità economica, arriva direttamente dal Musée d’Orsay e ne è curatore lo stesso presidente del museo e dell’ Orangerie, Guy Cogeval. Ha un elegante allestimento, segnato da frasi illuminanti di Baudelaire – solo in francese – e propone una centinaio di opere, cinquantaquattro dipinti, di cui sedici di Manet. Dieci sezioni tematiche danno conto delle scelte pittoriche di Manet , dei suoi contemporanei e della trasformazioni della Francia di fine XIX secolo.
Mancano purtroppo due capolavori che ,forse, avrebbero meglio dato il senso al titolo (Manet e la Parigi moderna) della bella esposizione: “Déjeuner sur l’herbes” e ” L’Olympia“, due tele di importanza capitale per comprendere il lavoro di Edouard, entrambe conservate all’Orsay. Opere dove vengono scardinate le regole accademiche e dove i soggetti parlano della “vie moderne“, la vita moderna, come sosteneva lo stesso Manet. Due tele che scandalizzarono la Parigi benpensante proprio perché erano dirette, senza infingimenti, raccontavano la realtà contro i dogmi della pittura accademica.
Come contraltare, però, la rassegna di Milano dà rilievo a una figura molto importante per Edouard Manet. Una pittrice che, in quanto donna, non poté frequentare l’Ecole de Beaux Arts: si chiamava Berthe Morisot (1841- 1845).
Si incontrarono casualmente al Louvre, mentre lei era intenta a copiare un’opera di Rubens e lì iniziò il loro rapporto forse solo professionale o, forse, no. Manet era un uomo sposato e Berthe pochi anni dopo sposò il fratello di Edouard. Manet la ritrasse in ben undici tele. Tra cui questa.
Un magnifico ritratto – scrive lo studioso Renato Barilli – sospeso tra i tralci di un nero mortuario appare di un caldo, sensuale incarnato.