di Isabella Procaccini
I Promessi Sposi è un capolavoro della nostra letteratura con cui ogni studente, prima o poi, deve fare i conti. Lo spettacolo Renzo e Lucia, Promessi Sposi, che ha debuttato al Teatro Manzoni giovedì 23 aprile e che sarà ancora in scena lunedì 27 e mercoledì 29, in matinée per le scuole, è un’ottima occasione per avvicinare i giovani, ma non solo, al romanzo manzoniano in modo piacevole e immediato.
Non c’è infatti strumento migliore del teatro per imprimere immagini e significati che sappiano durare nel tempo; sulla scena le pagine letterarie diventano vive e i personaggi assumono un volto. Il teatro diventa un efficace metodo di insegnamento. Lo sa bene il regista e drammaturgo Giovanni Moleri che, grazie alla bravura dei suoi attori Adriana Bagnoli, Giorgia Biffi, Elena Benedetta Mangola, Matteo Bonanni, Andrea Carabelli, Salvatore Auricchio e Diego Gotti, ai quali chiede di interpretare più ruoli, compone una pièce in cui le vicende narrate nel romanzo si intrecciano a quelle della vita del suo autore. È proprio Alessandro Manzoni ad entrare in scena per primo e a raccontarci come la famosa provvidenza, che muove i fili delle vite dei personaggi, abbia folgorato anche lui, durante un soggiorno a Parigi, spingendolo a iniziare a scrivere la sua impresa letteraria. La dimensione della vita e quella della storia si alternano continuamente, spesso sovrapponendosi, mostrando a livelli diversi del palcoscenico l’autore che scrive la storia e il personaggio che la vive, come se stesse prendendo forma in quell’istante, uscendo dalla macchina da scrivere del suo creatore.
Lo spettacolo è tenuto insieme dal filo invisibile della divina provvidenza, che ha diretto Manzoni nello scrivere e che diventa appiglio dei personaggi nel susseguirsi delle loro disgrazie, fino al lieto fine che tutti conosciamo. C’è una particolarità in questa messa in scena: la storia de I Promessi Sposi viene raccontata puntando l’attenzione sull’evoluzione e sul rapporto che ogni personaggio ha con la “divina sventura”. Don Abbondio, Fra Cristoforo, Renzo, Lucia, Gertrude, l’Innominato, Don Rodrigo… a ognuno di loro capita qualcosa che li spinge ad appellarsi alla provvidenza e a cambiare il proprio modo di agire. Il caso più evidente è quello dell’Innominato che, dopo il rapimento di Lucia e la profonda pietà provata per la ragazza, evolverà nell’animo, si scoprirà capace di piangere e si sentirà costretto a chiedere perdono a Dio.
Molto interessanti sono le parti in cui si racconta il tenero rapporto che Manzoni aveva con la moglie, Enrichetta Blondel la quale, immensamente devota, ispirerà il personaggio di Lucia.
Da sottolineare è anche il lavoro scenografico e illuminotecnico del regista e di Domenico Tripodi, capace di creare attraverso lo spostamento di scale e pareti mobili, tutti gli ambienti del romanzo: dalla casa di Don Abbondio, al convento della monaca di Monza; dalle rive del lago di Como, dove Lucia recita il celebre “Addio ai monti”, a piazza Cordusio, dove i milanesi scesero in rivolta per il pane.
A completare il quadro, lo spettacolo racconta l’epidemia di peste attraverso la famosa scena della madre che depone la sua Cecilia sul carro degli untori e poi va a stendersi al fianco dell’altra figlioletta più piccola ad attendere insieme la morte.
Il finale dello spettacolo cita le ultime parole del romanzo:
«Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se invece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta». Un lavoro ben riuscito, capace di cogliere gli episodi più emozionanti e salienti del capolavoro manzoniano e di trasmetterli al pubblico. Tutti noi da studenti, un po’ Manzoni l’abbiamo maledetto… e ancor di più sul finale, quando chiedeva addirittura di volergli bene! Forse, se tutti i capolavori fossero trattati così, in modo originale, con il supporto di altri mezzi, i poveri autori “si girerebbero meno nelle loro tombe!”.