di Laurenzo Ticca
Adesso tutti si stracciano le vesti, fingono commozione, piangono, scrivono articoli dai quali emerge il profilo di un protagonista del secondo dopoguerra italiano. Un gigante della politica. La verità è che Giacinto Pannella, detto Marco, nato a Teramo nel 1930, è morto solo.
Come solo aveva vissuto e, combattuto. Amava la gente, la strada, le battaglie di civiltà condotte contro l’oscurantismo di tanta parte del mondo cattolico, contro l’ intransigenza ideologica di una sinistra sempre un passo indietro.
Fu lui a credere nella modernità della base comunista contro le prudenti liturgie dei vertici del PCI. Il divorzio vinse. Fu lui a credere nella sensibilità delle donne italiane, quando con Adele Faccio ed Emma Bonino denunciava l ‘abominio dell’ aborto clandestino, praticato dalle mammane con i ferri da calza. E la legge sull’ interruzione di gravidanza vinse. Fu lui a battersi per i diritti civili, contro la fame nel mondo, per una giustizia giusta (a partire dal caso Tortora), contro il finanziamento pubblico ai partiti. Fu lui a gettare nello scontro politico il tema dei diritti degli omosessuali. Fu lui a denunciare instancabilmente con i suoi compagni radicali le condizioni di violazione dei diritti umani in cui versa il sistema carcerario italiano.
Ateo, anticlericale, fu uomo di fede. Credeva nel diritto, credeva nella non violenza. Inseguiva una purezza politica che lo tenne lontano da accordi e compromessi. Non fu mai ministro, sottosegretario presidente di qualcosa che non fosse il suo Partito Radicale. Forse questo è il suo limite.
Se la sparuta pattuglia radicale, tanto limpida quanto incapace di andare nelle competizioni elettorali oltre consensi da prefisso telefonico, fosse diventato un partito liberale di massa, oggi l’Italia, forse, sarebbe diversa. Un paese con meno retorica. Meno lacrime di circostanza, meno giornalisti e politici genuflessi – oggi solo oggi – davanti alla salma di Marco Pannella.