di Lello Gurrado
Avvenne all’improvviso, in una calda mattina di giugno. Era andato, come tutti i giorni. a comprare La Gazzetta dello Sport, il giornale che leggeva da più di mezzo secolo, aveva scambiato il solito sbrigativo buongiorno con il giornalaio, si era allontanato dall’edicola dando una scorsa ai titoloni della prima pagina e, soprappensiero, era sceso dal marciapiede a testa bassa, attraversando la strada senza accorgersi del semaforo rosso. L’uomo alla guida del Suv l’aveva schivato per pochi centimetri sterzando all’ultimo istante verso il marciapiede per poi ricoprirlo di una valanga di insulti accompagnati dall’urlo lancinante del clacson istericamente premuto con tutto il palmo della mano.
Fu quel suono perforante del clacson a mandargli il cervello in tilt? Fu lo spavento? Nessuno dei tanti medici consultati in seguito seppe mai dirlo. Fatto sta che in quel preciso, maledetto istante, Gianni Rocchi, 84 anni portati fino ad allora splendidamente, la mente lucida e la vivacità di un uomo con vent’anni di meno, andò in tilt.
Senza accorgersene fece meccanicamente un passo indietro per risalire sul marciapiede, dopodiché si bloccò quasi avesse messo i piedi in un cemento a presa rapida. Si guardò intorno con aria smarrita, si girò verso destra, verso sinistra, fissò la casa di fronte, la strada, ma non riuscì a capire perché in quel momento si trovasse lì, da solo, su un marciapiede, con La Gazzetta dello Sport tra le mani.
Non sapeva che cosa stesse facendo né dove fosse diretto. Stava tornando a casa o si stava recando al lavoro? Se stava andando a casa, qual era, dov’era la sua casa? In che via abitava? Lì vicino? Più lontano? Non se lo ricordava proprio, per cui ne dedusse che non poteva essere quella la sua meta. Era evidente, dunque, che non stava andando a casa, altrimenti avrebbe avuto ben in mente la strada, ma al lavoro. Guardò l’ora e pensò che doveva muoversi, erano già le dieci passate. Doveva andare a tirar su la saracinesca, non poteva far aspettare i clienti fuori dal negozio.
Accelerò il passo. Il giornale gli scappò di mano finendo sul marciapiede ma non perse tempo a raccoglierlo. Doveva sbrigarsi.
Prese la direzione giusta, senza alcuna esitazione, facendo emergere le prime contraddizioni della malattia che l’aveva appena colpito. Non ricordava nulla di quanto gli era capitato pochi istanti prima, ma conservava intatti i ricordi del passato. Passo dopo passo riconobbe il bar dei primi aperitivi, il tabaccaio degli anni in cui ancora fumava, la pizzeria che serviva la napoletana a metro. E poi il vecchio cinema della sua gioventù, quello che una volta apriva anche la mattina e ci andavano i ragazzi che bigiavano da scuola a vedere i film western, il bar del Gino, la chiesa rossa sulla destra, l’antico cancello in ferro battuto a metà marciapiede, il panificio nella piazzetta, il negozio di pelletteria e la farmacia del suo vecchio amico Giancarlo.
Rallentò il passo. Ormai era arrivato. Il suo negozio, la vecchia, gloriosa Orologeria Rocchi, la “bottega”, come la chiamava lui, che aveva ereditato dal padre che a sua volta l’aveva ereditata dal nonno e questi dal bisnonno, era dietro l’angolo, a metà marciapiede.
Guardò nuovamente l’ora: le dieci e dieci, un orario ancora decente per aprire. Era difficile che qualcuno entrasse in orologeria prima delle dieci, pensò.
Svoltò e si diresse sollevato e sorridente verso il negozio, felice di andare a vivere un’altra giornata in quello che da sempre era stato il suo regno, quando si verificarono due fatti devastanti.
Il primo avvenne quando mise la mano nella tasca destra della giacca per prendere le chiavi. Non le trovò. Si bloccò irrigidendosi di colpo. I piedi inchiodati al marciapiede, le gambe larghe ben piantate per terra, infilò la mano sinistra nell’altra tasca. Niente neanche lì. Ispezionò quelle interne, poi frugò nei pantaloni, prima nella tasca destra, poi in quella sinistra, poi nei due taschini posteriori… Niente. I suoi gesti divennero frenetici, le mani incominciarono a tremare, il fiato si fece grosso. Era furente con se stesso e con la sua sbadataggine. Come poteva essere uscito di casa senza le chiavi del negozio? Non gli era mai successo, mai, in tanti anni di attività. Chiuse gli occhi disperato. Come avrebbe fatto a tirar su la saracinesca?
Alzò lo sguardo sgomento verso la sua orologeria e a quel punto ebbe la seconda sorpresa: il negozio era già aperto. Chi sarà stato? si chiese guardando le vetrine illuminate e luccicanti. Marco, sì, sarà stato lui, mio figlio. Poteva dirmelo, però, me la sarei presa con calma, senza fare tutta questa strada a passo veloce. Ah, ’sti figli, fanno le cose senza avvertirti, senza neanche più chiedere il permesso sospirò e, sospirando, alzò lo sguardo verso le insegne.
In quel momento il suo cervello subì l’offesa più grave, quella dalla quale non si sarebbe mai più risollevato.
Clock House.
Sulle due vetrine del negozio c’era scritto Clock House, non Orologeria Rocchi.
Restò a bocca spalancata, immobile e attonito. Lo sguardo perso, le braccia ciondoloni lungo i fianchi, le gambe aperte. Era confuso, incredulo. Si stropicciò gli occhi, si guardò intorno, poi fece alcuni passi indietro, camminando a ritroso quasi volesse allontanarsi da quella inattesa visione, come se ne avesse paura. Retrocedendo con gli occhi sbarrati, sempre fissi sull’insegna del negozio, urtò una giovane donna che spingeva una carrozzina. La donna non gli disse niente, limitandosi a guardarlo con aria compassionevole. Gianni Rocchi biascicò un affrettato “mi scusi”, poi finalmente si voltò e si allontanò a testa bassa dal negozio. Quel negozio dove non metteva piede da quindici anni, da quando l’aveva ceduto a una società svizzera. Arrivò pensieroso all’angolo della strada, girò a destra e scomparve.
Lo ritrovarono a sera due volontari della Croce Bianca che erano stati allertati dai vigili urbani a loro volta messi in allarme dalla figlia di Gianni Rocchi.
Era seduto su una panchina. Aveva un’aria serafica, non ricordava più quel che gli era capitato alle dieci del mattino, né seppe dire che cosa avesse fatto tutto il giorno. Confessò soltanto di essere un po’ stanco, gli dolevano i polpacci. Per questo si era finalmente seduto su una panchina.
Ai ragazzi che lo aiutarono ad alzarsi disse che non poteva allontanarsi troppo perché stava aspettando la moglie per andare insieme a mangiare un gelato.
La moglie era morta da sette anni.