“Memorie senza scadenza”: quando la cupidigia dell’uomo sfida l’ambiente

onda_piena_ad_OvadaLa prima: tragedia del Gleno, 1° dicembre 1923. Il disastro fu provocato dal crollo strutturale della diga sul torrente Povo, in Valle del Gleno: un’onda di piena cancellò paesi, impianti, lavoro e vite umane, sfregiati dalle pietre trascinate dalla corrente. Un dramma annunciato, previsto. Dal processo che ne seguì, emerse come i lavori fossero stati eseguiti in modo inadeguato, senza le sicurezze che una grande opera richiede. Dodici anni più tardi: 13 agosto 1935, il disastro della diga di Molare, con un lascito di 115 vittime.  Si trattò di un cedimento di una barriera secondaria causato da un evento di piena. Un indennizzo di 30.000 lire ai familiari delle vittime e un processo che assolse tutti gli imputati. Nessun colpevole, se non l’eccezionalità delle piogge di quell’indimenticabile giorno d’agosto.

Si arriva al Vajont, il 9 ottobre del 1963, quarant’anni dopo Gleno.  Nessun cedimento; un pezzo di montagna, il Toc, cadde nel bacino artificiale, sollevando qualcosa paragonabile ad uno tsunami. L’onda scavalcò la diga, per puntare contro tre paesi, trascinando fango e distruzione per chilometri. 1910 vittime nella notte della tragedia di quelle città che scomparvero.
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Una strage cercata, ma denunciata da pochi giornalisti coraggiosi -tra cui Tina Merlin, figura epica della catastrofe, denunciata e processata “per aver diffuso notizie false e tendenziose, atte a turbare l’ordine pubblico”-, e da periti onesti che ne segnalarono invano la pericolosità: se ascoltati, avrebbero potuto evitare la strage? “Il trauma è stato arrivare lì dove si ergeva un caseggiato enorme con parco, viali, statue, e trovare deserto, silenzio. Solo ghiaia e sassi. Piangevo. Mi dicevo: come può il Piave continuare a scorrere, la luna a brillare dopo quello che è successo?” racconta una maestra del paese, sopravvissuta al disastro. Al primo posto tra i 5 peggiori esempi di gestione del territorio e dell’ambiente, “il Vajont è un classico esempio del fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere il problema che tentavano di risolvere” sostiene un documento ONU del 2008, stilato in occasione dell’International Year of Planet Earth.

Nell’estate del 1985, invece, non furono una grande diga e una grande pioggia a causare i 268 morti della Val di Stava: cedettero gli argini di due bacini di decantazione delle acque di lavorazione della fluorite a Prestavel di Stava. “L’impianto è crollato essenzialmente perché progettato, costruito, gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile si attende da opere che possono mettere a repentaglio l’esistenza di intere comunità umane. Non poteva che crollare”, così si espresse la Commissione Ministeriale d’Inchiesta e i periti nominati dal Tribunale di Trento.

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Cooperativa Rea (Ricerche Ecologiche Applicate), con la collaborazione del Comune di Monza, ripercorre “i disastri causati dalle dighe, la conoscenza e la responsabilità della scienza” per una “gestione responsabile del territorio”, tramite l’organizzazione e l’allestimento di una mostra all’Urban Center di Monza, in programma -e visitabile gratuitamente- per una settimana, da lunedì 17 a domenica 23 marzo. Quattro tappe: Gleno, Molare, Vajont, Stava. Una mostra, “Lezioni della Memoria”, per documentare e ricordare. Quattro sezioni tematiche, ciascuna con documenti su uno dei quattro tristemente famosi episodi.

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Sabato 22 marzo, invece, a partire dalle 9.30, una mattinata seminariale dedicata alle riflessione e alla collocazione storica-geografica degli eventi messi in mostra, perché dalla memoria si possa trarre insegnamento per il futuro. A seguire, una tavola rotonda “sulle grandi e piccole dighe sulle Alpi, sull’energia idroelettrica, sulla gestione condivisa delle risorse locali, sul rischio geologico e la sua gestione, sulla scienza e il diritto e dovere dell’informazione”.

Perché non ci siano più Glano, Molare, Vajont e Stava.

Perché vale la pena di ricordare.

Camilla Mantegazza

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