di Francesca Radaelli
Nacque a Parigi il 14 novembre 1840 Claude Monet, universalmente considerato il padre dell’impressionismo. Una definizione che a lui, il diretto interessato, non doveva piacere granché. Se è vero che, ormai anziano, ci tenne a precisare “ho avuto il solo merito di aver dipinto direttamente di fronte alla natura, cercando di rendere le mie impressioni davanti agli effetti più fuggevoli, e sono desolato di essere stato la causa del nome dato a un gruppo, la maggior parte del quale non aveva nulla di impressionista”.
Tutta colpa di quel dipinto, Impression, soleil levant, esposto nel 1874 nello studio del fotografo Nadar a Parigi nell’ambito della mostra del gruppo Societé anonyme des peintres, sculpteurs et graveurs, di cui facevano parte anche Cézanne, Degas, Renoir, Pissarro e Sisley, le cui opere si caratterizzavano per una tecnica pittorica decisamente originale rispetto a quella della pittura accademica in mostra al ben più istituzionale Salon di Parigi. Tutta colpa di quel critico, Louis Leroy, che, scandalizzato e disgustato da quei paesaggi informi, prese spunto proprio dal quadro di Monet per etichettare sarcasticamente come ‘impressionisti’ i partecipanti all’esposizione. Di lì in avanti il termine, accettato dagli stessi pittori, fu utilizzato per identificare il loro nuovo modo di dipingere, il cui obiettivo non è più raffigurare la realtà come essa è, ma piuttosto la sensazione provocata dalla sua visione.
Monet però, dopo le prime esposizioni, si distacca dal gruppo, proseguendo la propria ricerca pittorica in maniera individuale. Pur avendo studiato presso artisti affermati – il suo primo maestro fu il pittore Eugène Boudin – a differenza della maggior parte dei colleghi suoi contemporanei (anche ‘impressionisti’ alla Degas) non ama recarsi al Louvre per prendere spunto dai grandi pittori del passato. Anche agli inizi, le rare volte che si ispira ad altri quadri, non li sceglie tra i grandi classici da museo, ma preferisce fare riferimento ai suoi contemporanei (si veda la Colazione sull’erba, dal dipinto omonimo di Manet). Ma soprattutto Claude Monet desiderava porsi di fronte alla natura e al paesaggio en plein air, completamente spoglio da qualsiasi nozione accademica o sovrastruttura mentale, in modo da poter trasferire sulla tela l’impressione pura e immediata della propria visione.
Da questo approccio nascono opere come Donne in giardino, il Campo di papaveri, le vedute del Tamigi, il ciclo di tele dedicate alla stazione parigina di Saint-Lazare, così come quelle che hanno come soggetto la cattedrale di Rouen, dipinta nei vari momenti della giornata, nelle diverse stagioni, a mostrare gli effetti cangianti della luce del sole sulla facciata.
Negli ultimi anni, anziano e quasi cieco, il pittore si ritira nella sua casa di Giverny e si dedica all’attività che lo terrà occupato sino alla morte: dipingere il proprio giardino. Nasce così il ciclo delle ninfee – costituito da tele di varie dimensioni e dai grandi pannelli (circa quattro metri di lunghezza) ora esposti in due particolarissime sale ovali all’Orangérie di Parigi – considerato da molti critici come il primo esempio di pittura simbolista-astratta. Le forme si dissolvono completamente, i colori turbinano sulla tela. Il ponte giapponese, lo stagno, la casa sono i soggetti che ritornano ossessivamente nei quadri, i luoghi sono gli stessi ma appaiono diversi in ogni tela.
Che cosa ha dipinto l’anziano Monet nel suo giardino? Il progressivo avanzare della cecità, restando fedele all’impressione immediata della visione individuale trasferita sulla tela? Oppure la ricerca di qualcos’altro, di ciò che c’è dietro, alla natura e alle stagioni, che non può essere espresso con una forma figurativa ma solo con il colore? Che cosa hanno rappresentato le ninfee per il vecchio pittore? Difficile dirlo con certezza, lo scrittore Alessandro Baricco ha dedicato alla questione un capitolo intero, all’interno del suo romanzo City. Forse, però, la domanda da porsi è un’altra. Forse ciò che possiamo chiederci è, semplicemente, che cosa rappresentino per noi, che le guardiamo, le ninfee di Giverny. Perché dopotutto, insegna Monet, ciò che conta è lo sguardo. E l’impressione del pittore di fronte alla natura non è poi così diversa da quella dello spettatore di fronte a un dipinto.
Francesca Radaelli