Morire di TSO, quando il killer è l’abitudine

Ambulanza_tsodi Alessandro Arndt Mucchi

Di Trattamento Sanitario Obbligatorio si muore, come ci insegna la cronaca recente, ma com’è possibile che un intervento per aiutare si trasformi in omicidio colposo? Quello che è successo lo scorso 5 agosto a Torino, con il decesso di Andrea Soldi e l’iscrizione al registro degli indagati dei tre agenti di Polizia Locale e del medico coinvolti nell’intervento, è un tragico evento che sembra difficile da spiegare, ma che invece per chi ha esperienza di primo soccorso è meno indecifrabile.

Le responsabilità del caso in questione verranno chiarite nelle sedi appropriate, qui non c’è spazio per la gogna mediatica o per individuare un colpevole, possiamo invece prendere spunto dalla vicenda per dare una possibile spiegazione o almeno per far partire un dialogo informato, lasciando da parte la caccia a una divisa “cattiva” o alle istituzioni assenti e incapaci di preparare i propri uomini, perché bisogna cercare (anche) altrove.

L’abitudine addormenta, nasconde e maschera tutto quello che ci accade attorno. “A tutto si abitua quel vigliacco che è l’uomo”. L’abitudine è la caduta nell’abisso nel quale si ha guardato troppo, è un’apnea della ragione che dura una vita, e che una vita se la prende se ci si dimentica di tornare in superficie a respirare.

Il fatto è che gli esseri umani sono molto più prevedibili di quanto ci piaccia pensare, e anche quelli che soffrono di malattie psichiatriche rientrano nella maggior parte dei casi in una manciata di categorie più o meno definite, così dopo averne visti a decine si inizia a pensare meno e automatizzare di più.

L’assertività, che a volte diventa aggressività e da lì violenza, è parte inevitabile dell’intervento di primo soccorso anche se può sembrare strano. Il Capo Equipaggio dell’ambulanza deve in pochi istanti far capire a pazienti e parenti chi ha il controllo della situazione per fare l’interesse del malato anche quando questo non è palese, così come il capo pattuglia al suo arrivo deve mettere subito in chiaro quali sono i confini da non superare.

Nella maggior parte dei casi la componente aggressiva del servizio di primo soccorso è prossima all’inesistente, sono gli stessi pazienti a cercare nella divisa arancione una rassicurante autorevolezza, ma gli psichiatrici, o chi finge di esserlo (categoria ben più nutrita), corrono spesso lungo il confine.

I soccorritori e le forze dell’ordine ci sono abituati, i pazienti gridano, corrono in mezzo alla strada, danno testate al muro, ma nella stragrande maggioranza dei casi si fermano giusto un attimo prima che l’aggressività diventi violenza.

Si lasciano prendere, magari insultano o sputano, ma sanno perfettamente cosa si rischia a esagerare. È quasi un gioco delle parti: urlano e gli agenti alzano la voce, danno un colpo al muro e gli agenti mettono i guanti di pelle, si tagliano e gli agenti li immobilizzano e portano sul lettino.

Sono momenti tesi, e si deve in pochi secondi decidere se quel paziente è effettivamente un pericolo per sé o per gli altri così da giustificare la privazione della libertà.

Momenti tesi e drammatici dunque, ma a cui ci si abitua col tempo e che diventano quasi routine. Una difesa della psiche probabilmente, l’abitudine come collante di una mente che potrebbe andare in pezzi sotto ai martellanti colpi del male, del dolore, del sentirsi impotenti di fronte alla sofferenza. Ma anche l’abitudine come killer quella singola volta che le cose vanno diversamente, e non si fa a tempo a riemergere per una boccata di ragione che è già troppo tardi.

I soccorritori, le forze dell’ordine e il personale medico devono essere addestrati e capaci di seguire a menadito gli indispensabili protocolli del caso, da soli sufficienti a gestire la maggior parte dei servizi, ma forse sarebbe necessario anche educare a diventare la voce fuori dal coro. Bisognerebbe spingere al pensiero critico, al dubbio, alla capacità di rompere l’apnea e cambiare prospettiva, perché quella singola volta che le cose non vanno come il solito bisogna essere in grado di reagire.

Alessandro Arndt Mucchi
soccorritore volontario del 118 

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