di Gaia Sironi
100 anni fa, l’11 marzo del 1924, nasceva Franco Basaglia, psichiatra rivoluzionario e padre della Legge 180/1978 con la quale venne imposta la chiusura dei manicomi e venne regolamentato il trattamento sanitario obbligatorio dei pazienti psichiatrici. Cambiò radicalmente l’approccio di cura alle malattie mentali e la loro narrazione e rappresenta, ancora oggi, una delle più grandi conquiste di carattere sociale, umano e civile del nostro Paese.
I Muri e il teatro
Lo spettacolo teatrale “Muri: prima e dopo Basaglia”, andato in scena recentemente al Teatro Manzoni di Monza, ripercorre, attraverso lo sguardo e la testimonianza dell’infermiera Mariuccia Giacomini, questa progressiva rivoluzione: con una parlata triestina racconta la sua esperienza trentennale all’interno dell’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Trieste, riflette sugli incontri fatti e sulle cose viste e condivide la sua quotidianità con emozione e lucidità.
Il testo e la regia sono di Renato Sarti che negli anni Settanta, prima che la legge entrasse in vigore, si confrontò in modo diretto con la complessa realtà dei manicomi. Alla compagnia teatrale di cui faceva parte era stato concesso di fare le prove nel teatro situato all’interno del comprensorio manicomiale di Trieste.
L’incontro con Brunetta
Alle prove e agli spettacoli potevano assistere anche i pazienti; il giovane attore fu particolarmente colpito dall’incontro con Brunetta, una ragazza lobotomizzata, che aveva marchiata sul volto e sul corpo una violenza indicibile: pochi denti, occhi infossati, cicatrici sulla testa, impossibilità di camminare e di parlare.
Sarti racconta che era capitato diverse volte che la donna si fosse avvicinata al gruppo di attori in cerca di quell’ affetto che per anni le era stato negato, di quella umanità che le era stata tolta. Camicie di forza, sporcizia, silenzi, quantità esagerate di psicofarmaci, pestaggi, elettroshock, lobotomia: questo era il terrificante mondo dei manicomi prima dell’arrivo di Basaglia.
Un percorso di memoria rivissuto dal monologo della superlativa Giulia Lazzarini
Un mondo in cui l’umanità e la dignità dei pazienti venivano annullate in modo assoluto. Sarti, con un teatro impegnato, civile e politico, ci propone un vero e proprio percorso di memoria, invitandoci a ricordare cosa è stato ottenuto in passato e cosa noi, quotidianamente e attivamente, dobbiamo impegnarci a custodire e preservare. E’ un percorso sia individuale che necessariamente collettivo nel quale tutti ci dobbiamo sentire interpellati e coinvolti.
Viene guidato dalla commovente voce dell’eccezionale Giulia Lazzarin e accompagnato dalle delicate musiche di un carillon; la scenografia è essenziale e le luci riescono a dare a un semplice telo appeso come sfondo la consistenza di un muro.
Prima e dopo Basaglia
E’ proprio attorno al significato della parola “muro” che si articola tutto il monologo. Le parole di Mariuccia sono fatte di semplicità e di umiltà, ma nonostante questo riescono a raccontare perfettamente una delle rivoluzioni più complesse della storia e a trasmettere il valore umano, prima ancora che quello scientifico, di quel cambiamento così dirompente. Mariuccia aveva iniziato a fare l’infermiera da giovanissima e si era trovata fragile, vulnerabile e impotente davanti a quel mondo così complesso e incomprensibile.
I manicomi, infatti, erano un luogo di violenza e di tortura. “Ecco un episodio che mi ricordo perchè è stato un forte trauma per me: una volta una del reparto “O” si era rivoltata contro di me e mi aveva aggredito e io ho cominciato a gridare; da sopra sono arrivati tre uomini-diciamo tre infermieri- due l’hanno bloccata e il terzo ha iniziato a sferrarle delle ginocchiate e dei calci così forti e tremendi, e io ho ho gridato di lasciarla: non si fa così.
Questo era il loro modo di lavorare, prima di Basaglia”, racconta Mariuccia attraverso la commossa voce di Lazzarin. I manicomi erano anche un luogo di silenzio, di isolamento e di distanza. Mariuccia dice: “Tutte le dodici ore che stavamo qua dentro non dovevamo parlare con loro. Nessuno comunicava più con queste centocinquantuno donne, pareva che fossero mute”. Mariuccia vede, a poco a poco capisce la realtà che la circonda e comincia a farsi insofferente, ma non può fare altro che eseguire i compiti imposti dalle regole e dai caposala che dimenticano la propria umanità per sfogare su chi è più vulnerabile la propria cattiveria e frustrazione.
la rivoluzione di Basaglia
Solo negli anni Settanta, con l’arrivo dell’equipe Basaglia, cambiò tutto: quei muri fatti di violenza, tortura, silenzio,
isolamento e distanza furono gradualmente abbattuti; i pazienti tornarono ad essere uomini, a poter parlare, a potersi muovere, a poter vivere. Il lavoro principale del personale ospedaliero non era più il custodire e il coerecere, ma il confrontarsi, il dialogare, l’ascoltare, il comprendere. Basaglia aveva annullato il confine che separa la “normalità” dalla “follia”; pazienti e infermieri si ritrovarono a far parte di una stessa comunità e, con tutte le loro diversità, si riconobbero ugualmente ricchi di umanità e di dignità.
la fine dei manicomi … E i muri?
Il manicomio non esiste più e anche Mariuccia cambia; scopre la politica, il movimento basagliano, le rivendicazioni
sociali tipiche di quel decennio e, così, anche i suoi muri cominciano a crollare: “Con Basaglia ho cominciato a capire che io non sono solamente un ruolo-madre, moglie, figlia, sorella- ma sono anche un soggetto sociale, politico e quindi ho iniziato a mettere in discussione tutto”. Non è il muro di pietra che bisogna abbattere, ma sono i nostri muri personali.
Muri fatti di pregiudizi, di paure, di discriminazioni, di conformismo. Questo spettacolo è un invito alla rivoluzione, al cambiamento positivo, che necessariamente deve essere sia individuale che collettivo, sia personale che politico. E’ un invito prezioso a riflettere, ancora oggi a decenni di distanza, sulla concezione che abbiamo delle malattie mentali e ad abbattere, pietra dopo pietra, tutti i nostri muri.