Nihil

di Eleonora Duranti

Nel 1840, Giuseppe Mazzini scrive su una rivista inglese che Francesco Hayez è il capo della Scuola di Pittura Storica che l’Italia tanto reclamava. Manca poco più di un ventennio all’Unità, eppure l’artista veneziano si fa portavoce di quello che, di fatto, è già il pensiero nazionale. Le sue opere non rispondono soltanto ai canoni del Bello, ma, soprattutto, riflettono il Vero. Con i suoi pregi e con i suoi difetti. 

Piove, a Venezia.

Da diversi giorni, ormai, tanti cerchi concentrici, piccoli e grandi, danzano sulla superficie dei canali e i gondolieri restano a terra, al riparo dei ponti e degli androni. Se ne rimangono in silenzio, senza accennare una sola delle loro serenate, e osservano il cielo plumbeo con occhio amaro, sperando di scorgervi qualche sprazzo di azzurro. Invano. I loro sospiri si perdono nell’aria fredda del mattino e i loro cappelli, rossi e blu, adornano pilastri, colonnine e panchine vuote.

Poche persone battono le calli. Camminano svelte, corrono quasi, scervellandosi per superare le pozzanghere senza cascarvi dentro con entrambi i piedi e rasentando i muri come ombre inquietanti. Per la maggior parte, vestono pure di nero e le loro figure snelle, bislunghe e scheletriche non fanno altro che rendere tristissima la Serenissima.

Certo, il grigiore novembrino poco si presta a entusiasmi ed euforie. Non è che un limbo… Un passaggio obbligato tra il pittoresco dell’autunno e lo sfavillio del Natale. Ed è logorante… Avvilente…

La sua monotonia confonde, corrode. Il suo tedio opprime.

Persino i fiori vengono privati del respiro e si abbandonano all’inerzia e alla rassegnazione del momento.

La casa è silenziosa. Solo il rintocco delle campane giunge da lontano, quasi fosse un angelo portatore di sventura e non di buone novelle.

Forse, se pregassi, troverei conforto…

Forse, se stringessi e conficcassi i grani del rosario nel palmo della mano, fino a farlo sanguinare, tutta la nebbia che mi offusca la mente si dissolverebbe e mi libererebbe finalmente dalla sua morsa, infida e mortale.

La scorsa settimana, il dottor Zanin mi ha definita una ragazza malinconica…

È un professore rinomato in città e nessuno ha osato contraddirlo. Prima fra tutti, mia madre…

«Lo dimostrano i suoi occhi…» Ha affermato Zanin, indicandomi con gesto plateale… «Sono neri e profondi come due pozzi senza fine… Chissà quali segreti nascondono! E chissà quali pensieri fomentano!»

Mia madre ha annuito con convinzione e mi ha rivolto il suo sguardo severo. Ho avuto l’impressione che si sentisse minacciata dalla mia compostezza e che diffidasse della mia apatia…

Avrei voluto consolarla. Assicurarle che sono ancora ben presente a me stessa e che i miei occhi non celano né arcani misteri né tantomeno congetture machiavelliche…

Se me lo permettesse, le chiederei del tempo.

Del tempo per riassettarmi. Per purificarmi.

Del tempo per cambiare l’acqua a questo vaso. E per raccogliere i petali caduti.

Del tempo per riscaldare il mio cuore e quietare la mia testa.

Del tempo per riapprezzare la vita. Per riapprezzare il mondo. Per riapprezzare il rumore della pioggia.

Sì, le chiederei solo del tempo. Dell’altro tempo.

Perché la verità è che, adesso, non provo nulla.

Assolutamente, inevitabilmente, irrimediabilmente nulla.

Francesco Hayez, Pensiero malinconico, 1842. Olio su tela, 135×98 cm. Milano, Pinacoteca di Brera

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