di Marco Riboldi
Quest’anno non è apparso, a differenza degli scorsi anni, l’articolo di commemorazione del genocidio degli Armeni, che si ricorda il 24 aprile. Ma non mi dimentico dell’Armenia, questa terra dolce e sfortunata, la prima sulla quale si posarono gli occhi di Noè il giorno del ritorno alla vita dopo il diluvio universale.
Ma oggi siamo davanti ad un nuovo diluvio e si fatica ad avvistare un’arca di salvezza. Come qualcuno saprà, c’è una regione di quelle terre, il Nagorno Karabakh/Artsakh, che costituisce una enclave interamente abitata da Armeni all’interno dell’Azerbaigian.
Alcuni anni fa, dopo un referendum preceduto da varie stragi di Armeni residenti in Azerbaijan, tale regione si proclamò Repubblica Indipendente, nel quadro della dissoluzione della vecchia Unione Sovietica: ne nacque un conflitto con lo stato azero. Da allora si sono susseguiti eventi che hanno reso via via più drammatica la situazione.
Oggi siamo di fronte ad una nuova svolta. Da circa 150 giorni i 120.000 armeni cristiani del Nagorno Karabakh/Artsakh sono completamente isolati, avendo le truppe azere tagliato l’unica via di accesso , il cosiddetto corridoio di Lachin, dalla quale passavano rifornimenti, combustibile, medicinali e tutto quel che serve per vivere.
Ad oggi, né le dichiarazioni solenni, né le condanne di stati e ONU hanno prodotto qualche risultato: i giovani studenti trovano le loro scuole chiuse ( si parla di 20.000 bambini e giovani) e più di 800 attività economiche hanno chiuso i battenti.
Siamo davanti ad un tentativo di stroncare la fisica presenza di questa popolazione e il mondo occidentale, mi pare, si limita a qualche formale protesta. Ecco: torna l’indifferenza con cui all’inizio del XX secolo si seguì lo sterminio degli Armeni. Speriamo che questa volta la coscienza occidentale reagisca diversamente. Sennò, una volta di più dovremmo concludere che la storia sarà anche maestra di vita, ma noi siamo pessimi allievi.