Quella Notte di Capodanno che volevo fare a pugni per difendere Fratel Ettore

di Claudio Pollastri

La Notte di Capodanno, in qualsiasi posto mi trovi, penso a trent’anni fa quando avevo salutato il Nuovo Anno a Casa Betania delle Beatitudini di Seveso accanto a Fratel Ettore (al secolo Ettore Boschini). Accompagnare il “padre dei poveri” nel pellegrinaggio notturno in cerca di anime perse da riportare all’ovile, disperati da consolare, ammalati da aiutare, mi aveva fatto trovare la risposta ai dubbi che avevo sempre avuto su come sono i santi visti da vicino, come superano gli ostacoli, come rispondono alle offese.

Ero andato a Casa Betania per raccontare con lo scetticismo disincantato del cronista (anche se cattolico) la notte più mondana dell’anno vissuta in uno dei rifugi organizzati da “l’angelo dei clochard”. Un cammino di solidarietà rivolto agli scarti della società che Fratel Ettore aveva iniziato negli Anni Settanta nei sotterranei della Stazione Centrale di Milano ed è culminato a dicembre del 2017 nell’apertura del processo di beatificazione e canonizzazione da parte dell’arcivescovo di Milano Mario Delpini.

Il cielo sopra la Brianza nella Notte di Capodanno di trent’anni fa era rischiarato dai fuochi d’artificio per l’arrivo dell’Anno Nuovo e Fratel Ettore continuava la sua missione tra chi aveva perso ogni speranza. Un apostolato tra gli invisibili che aveva attirato l’attenzione anche di Madre Teresa di Calcutta, ora santa, che di ultimi se ne intendeva. La piccola suora albanese aveva voluto incontrare “l’angelo dei disperati di Milano e della Brianza”. Un incontro breve e semplice nella metropoli lombarda quasi senza parole perché lui non parlava inglese e lei non parlava italiano ma si capivano condividendo il messaggio universale della carità.

Fratel Ettore alla mensa dei senzatetto alla Stazione Centrale di Milano

Avevo incontrato Fratel Ettore qualche mese prima nella chiesa di Sant’Ambrogio a Milano dove si celebravano i funerali di Enzo Tortora. Ero lì per raccogliere le testimonianze delle persone che avevano portato l’ultimo saluto al presentatore quando, verso la fine dell’omelia, era entrato in chiesa con la sua simpatica irruenza Fratel Ettore e aveva chiesto di dire due o tre cose su Tortora. Gli era stato concesso perché il Cardinale Martini, che vedeva nel frate camilliano l’interpretazione autentica e semplice del messaggio evangelico rivolto ai poveri, aveva disposto che ogni volta che entrava Fratel Ettore in chiesa lo si doveva accogliere con rispetto a costo di interrompere le funzioni. Una risposta dura da parte del cardinale verso quei curiali che guardavano al “fratello degli ultimi” come a un personaggio folkloristico da tenere ai margini per non urtare un certo perbenismo farisaico. In quell’occasione Fratel Ettore aveva ricordato qualche episodio della vita di Tortora e aveva concluso con l’affermazione provocatoria “meriterebbe di essere santificato per quello che ha passato e l’ingiustizia subita”. Dichiarazione che aveva provocato commenti e critiche e l’interesse indagatore dei giornalisti.

Così ero andato a Casa Betania, per approfondire la sua proposta e realizzare un reportage sulle nottate che – secondo qualche ammissione – erano molto rischiose e pesanti. Ma non volevo raccontarne una qualunque, bensì quella da sempre dedicata al divertimento più mondano e sfrenato come la Notte di Capodanno. Fratel Ettore mi aveva sorriso e con le sfumature del suo accento mantovano (era nato a Roverbella da famiglia contadina e lui stesso aveva lavorato nelle stalle prima di entrare nell’ordine ospedaliero dei camilliani) aveva acconsentito dicendomi  “basta che scrivi quello che vedi, semplicemente la verità…”.

Come da accordo, avevo passato la giornata e la notte di San Silvestro toccando con mano in cosa consisteva la “pazzia della santità” del “gigante della carità”, come titolavano i giornali, che raccoglieva i disperati dell’anima e gli invisibili di ogni genere con un pulmino Volskwagen dove campeggiava sul tettuccio la statua della Madonna di Lourdes che lui invocava in ogni momento di difficoltà. A volte dall’altoparlante venivano diffusi canti mariani mentre il pulmino percorreva le strade del centro.

La gente si voltava sorridente a guardare quello strano religioso con l’abito nero e la croce rossa e grande sul petto sempre più convinta che fosse quanto mai calzante l’appellativo “folle di Dio”. Lui teneva spesso tra le mani il rosario e quando le offese diventavano pesanti sfiorando gli insulti tentava di porgere la mano a chi l’offendeva e poi rispondeva recitando un’Ave Maria. C’era sempre qualcuno che lo fermava per un saluto, oppure una sosta improvvisa in una via trafficata di Milano per soccorrere un barbone che nella generosità meneghina non suonava come un insulto.

Verso sera eravamo rientrati a Casa Betania che in quel periodo era il Quartier Generale di Fratel Ettore. Una breve sosta, qualche parola dolce per chi lo aspettava, un tenero richiamo a chi voleva lasciarsi andare, un boccone veloce, un brindisi semplice e povero con i collaboratori e poi dopo la Messa di Mezzanotte eravamo tornati sulle strade della Brianza dove scoppiavano i fuochi di addio all’Anno Vecchio e di saluto al Nuovo. Dopo qualche chilometro avevamo visto un senzatetto che rovistava nella spazzatura. Fratel Ettore si era fermato, gli aveva messo la mano sulla spalla, lo aveva salutato e sempre con la voce pacata e una preghiera a fior di labbra gli aveva detto di andare a Casa Betania che ci sarebbero stati un pasto caldo, una fetta di panettone e un letto per dormire anche per lui. Un saluto grato da parte del clochard e poi di nuovo “on the road” in cerca di altre mani da stringere, cuori da confortare, speranze da riaccendere.

Fratel Ettore: è visibile sul petto la grande croce rossa dell’ordine dei camilliani, che ha sempre caratterizzato la sua figura

Erano circa le tre di notte e si sentiva ancora l’eco degli ultimi petardi e gli aloni degli ultimi fuochi d’artificio. Dalle parti di Desio avevamo intravisto ai bordi della strada una persona sdraiata. Fratel Ettore aveva fatto fermare subito il pulmino Volskwagen. Era sceso, si era avvicinato all’uomo che forse era solo ubriaco o in crisi di astinenza. Un fatto era comunque evidente: stava molto male. Aveva forti brividi che gli sconvolgevano il corpo ma non erano per il freddo che pure era pungente. Eravamo andati ad aiutare Fratel Ettore a caricare l’uomo – che in realtà era un ragazzo poco più che ventenne – sul pulmino Volskwagen ed eravamo ripartiti veloci verso il più vicino ospedale. Raggiunto in pochi minuti il Pronto Soccorso Fratel Ettore era entrato col suo passo deciso nell’ambulatorio addobbato per il Natale da poco passato e con i segni di brindisi festosi da poco consumati dicendo che aveva una persona grave in macchina. Noi lo seguivamo per riprendere ogni istante della scena che si preannunciava ricca di valore giornalistico ma povera di quello umano.

Dopo pochi passi Fratel Ettore veniva fermato da un giovane medico di guardia che lo aggrediva verbalmente con insulti molto pesanti inframezzati da bestemmie volgari e concludendo con tono minatorio sottolineato dall’indice della mano destra alzato “…anche a Capodanno no! Iniziamo l’anno nuovo con i soliti disgraziati! Questo è un ospedale non uno dei suoi rifugi di pidocchiosi!…”. E giù altri insulti violenti come pugni nello stomaco. Fratel Ettore lasciava dire e cominciava a recitare l’Ave Maria come faceva quando lo insultavano. Più il medico alzava la voce con epiteti irripetibili più Fratel Ettore pregava mentre noi aiutavamo il ragazzo ad entrare nel Pronto Soccorso dove però tre infermieri chiamati dal medico ci bloccavano. Le offese del medico erano così violente e le bestemmie così volgari che non ero riuscito a controllarmi e venendo meno all’obiettività deontologica e al classico sangue freddo del cronista mi ero avvicinato al medico con tono minaccioso e il dito indice della mano destra a due millimetri dal suo naso pronto a fare a pugni per prendere le difese di Fratel Ettore. Che anziché ringraziarmi mi aveva preso per un braccio e allontanandomi dal medico mi aveva sgridato dicendomi che non dovevo comportarmi come lui evitando di reagire “…e adesso recita con me un’Ave Maria e vedrai che qualcosa di buono succederà…”.

Il ragazzo che era entrato nel Pronto Soccorso barcollava e privo ormai di energia era crollato a terra. A quel punto interveniva una dottoressa che  arrivava da una sala attigua, si avvicinava al ragazzo e gli prestava i primi soccorsi ordinandone l’immediato ricovero mentre riprendeva con tono deciso di rimprovero deontologico e umano il collega che, con un gesto stizzito della mano, se ne andava sbattendo la porta.

Fratel Ettore mi aveva guardato e mentre ce ne andavamo mi prendeva ancora la mano e mi sorrideva “…vedi che alla fine la Madonna mi aiuta… bisogna avere fede… nessuno può resistere alle preghiere rivolte Lassù “. Lo avevo guardato e avevo pensato mentre tornavamo al pulmino Volkswagen per riprendere il viaggio nella notte sulla via dei disperati che nessuno può resistere alla “santa pazzia” del “folle di Dio”. E lo penso ogni Notte di Capodanno.

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