Nuove speranze per la cura del Parkinson

di Roberto Dominici
Il Parkinson è una malattia neurodegenerativa, i cui sintomi motori tipici sono il risultato della morte delle cellule nervose che sintetizzano e rilasciano la dopamina, un neuromediatore essenziale prodotto dalle cellule cerebrali che si trovano nella substantia nigra, una regione del mesencefalo.

La causa che porta alla loro morte è sconosciuta.
 
All’esordio della malattia, i sintomi più evidenti sono legati al movimento, ed includono tremori, rigidità e lentezza dei movimenti con difficoltà a camminare. In seguito, possono insorgere problemi cognitivi e comportamentali, con la demenza che si verifica nelle fasi avanzate in una percentuale significativa di casi (25-30%). La malattia di Parkinson è più comune negli anziani; la maggior parte dei casi si verifica dopo i 50 anni.
 
Al 2017 non esiste una cura per la malattia di Parkinson, ma il trattamento farmacologico, la chirurgia e la gestione multidisciplinare sono in grado di fornire sollievo ai sintomi. I farmaci principalmente utilizzati nel trattamento di sintomi motori sono la Levodopa (di solito in combinazione con un inibitore della dopa-decarbossilasi e un inibitore delle COMT, gli agonisti della dopamina e gli inibitori MAO-B (Inibitore delle monoaminoossidasi B).
 
Nel Parkinson si verifica una drammatica costante morte dei neuroni nel cervello ma non è affatto chiaro il perché accade tutto questo.  Diverse sono le ipotesi al vaglio, ma tutte non hanno ancora saputo dare un volto a questo processo. Studi molto recenti rivolti all’identificazione delle cause della malattia suggeriscono che dietro a questa perdita di neuroni vi possa anche essere il sistema immunitario.
 
I ricercatori del Columbia University College of Physicians & Surgeons hanno pubblicato i risultati del loro studio sulla rivista Nature Communications, e qui si legge che la malattia di Parkinson potrebbe in realtà essere una malattia cosiddetta autoimmune. Al pari del diabete di tipo 1, la celiachia o la sclerosi multipla, nella malattia di Parkinson potrebbe essere che i neuroni siano scambiati dal sistema immunitario come invasori da combattere, per cui ecco che si verifica un attacco da parte delle cellule preposte all’eliminazione del nemico. Solo che, in questo caso, è un’azione che si ritorce contro il corpo stesso.
 
Una strada promettente in termini di prospettiva terapeutica è quella di riparare i danni provocati dalla malattia grazie alle cellule staminali. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Kyoto è riuscito a recuperare le funzioni dei neuroni danneggiati dalla malattia e alcuni movimenti grazie al trapianto di cellule staminali nel cervello di un gruppo di primati non umani (scimmie). Con i risultati raggiunti, pubblicati su Nature, i ricercatori, guidati da Jun Takahashisperano di poter partire con la sperimentazione clinica sull’uomo entro la fine del 2018. La conferma che questo tipo di terapia funziona nel modello animale, era uno degli ultimi passi necessari per iniziare a trattare l’uomo. In questo caso gli studiosi sono riusciti a ricavare dalle staminali i neuroni che rilasciano la dopamina (detti dopaminergici); quando ci si ammala di Parkinson, questi neuroni iniziano lentamente a morire e, senza la dopamina, le cellule che controllano il movimento non possono inviare messaggi ai muscoli.
 
Quando compaiono i primi sintomi della malattia, di solito il paziente ha già perso oltre la metà dei suoi neuroni dopaminergici. In questo caso i neuroni della dopamina sono stati derivati dalle cellule staminali pluripotenti indotte (iPS) umane, che possono essere prodotte da normali cellule adulte, e a loro volta differenziarsi in qualsiasi tipo di tessuto. Impiantanti nel cervello delle scimmie con i sintomi del Parkinson, i ricercatori hanno osservato un miglioramento significativo nei due anni successivi al loro trapianto.
 
Molti studi hanno dimostrato l’efficacia, nel ridurre i sintomi, del trapianto di questi neuroni ricavati dalle cellule fetali, che però sono più difficili da avere e suscitano problemi etici, mentre le cellule iPS possono essere sviluppate dal sangue o dalla pelle. Questo lavoro dimostra che i neuroni ricavati dalle cellule iPS umane sono sicuri ed efficaci, hanno una lunga sopravvivenza e hanno ripristinato diversi movimenti. A livello di sicurezza le cellule non hanno prodotto effetti collaterali negativi ed i ricercatori hanno anche identificato le caratteristiche genetiche che influiscono sulla sopravvivenza e possono essere usate per selezionare le migliori cellule in ambito clinico. La loro speranza è di iniziare a reclutare i volontari entro la fine dell’anno, in modo da avviare la sperimentazione clinica sull’uomo entro la fine del 2018.
 
20 ottobre 2017
 
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