di Mattia Gelosa
Non c’è stato nulla da fare per il folto pubblico che ha riempito la platea del Binario 7 di Monza: alla fine del bellissimo spettacolo di César Brie, fuori i fazzoletti ad asciugare le lacrime.
In effetti, il noto mito di Orfeo è già di per sé una delle più emozionanti storie di tutti i tempi, con questo eroe che incarna il potere della musica e sfida persino gli Inferi per riprendere, invano, la sua amata. Questo, però, accadeva al tempo in cui erano gli dei olimpici a comandare, mentre ora Orfeo si incarna in una figura assai diversa, ma non meno eroica: un innamorato qualunque, colpito dalla sventura di perdere la moglie.
Brie mette in luce la presenza–assenza della moderna Euridice, che proprio come la sua antenata omonima è in un limbo, né viva, né morta. Oggi, questo stato si chiama ”coma vegetativo” e per lei e per il marito, che se ne prende cura, dura da 17 anni. Un tempo infinito per lui, straziato, stremato, invecchiato e senza speranze, ma che lei non può nemmeno percepire. Natale, Pasqua e compleanni passano veloci come immagini sul rullo di una slot machine, nemmeno il tempo di goderne e già la rotazione riparte.
Ha senso andare a riprendersi Euridice? Tenere in vita a tutti i costi un corpo ormai inerme? E’ amore, o accanimento? Lei in vita chiese che, nell’eventualità fosse rimasta in coma, la si lasciasse andare al suo destino, ma la legge e una medicina più burocratica che umana fanno muro.
Nello spettacolo, la scienza è pura istituzione, un camice tristemente vuoto che non veste nessuno. Solo alla fine, una dottoressa mostra la sua sensibilità al tema e consiglia uno stratagemma ad Orfeo affinché lui possa aggirare quelle regole che, è evidente, non piacciono nemmeno a loro.
D’altronde, Euridice non è più nulla se non un corpo immobile: toccante è il momento in cui Orfeo le parla e la aiuta a pettinarsi, così come è da brividi la figura del medico che, al contrario, la tratta senza nessun riguardo.
Rispettare la vita vuol dire anche accettarne la fine, e così, ribaltando il finale del mito classico, è Orfeo che lascia andare Euridice: la “Stranizza d’amuri” di Franco Battiato, canzone simbolo della coppia, include anche il fatto che, in casi estremi, desiderare ed accettare la morte di coloro a cui vogliamo bene sia il più forte gesto di altruismo e d’amore.
Applausi meritati per tutta la produzione dell’opera: bello il testo, dure e algide le luci di Taddei e la regia di Cèsar, che tratta il dramma in modo asettico, come al cinema seppe fare solo Almodòvar in “Parla con lei” (2002). Sugli scudi anche il duo di attori, Giacomo Ferraù e Giulia Viana, che si alterna anche nelle parti di altri comprimari: la storia li tocca dentro, così i sorrisi sono veri tanto quanto le lacrime, lo sconforto e il dolore. Infine, le musiche di Pietro Traldi sono semplici accenni sonori, con una vaga suggestione dall’aria “J’ai perdu mon Eurydice” dall’ Orfeo di Gluck e funzionano bene.
Ancora una volta il Binario 7 fa centro, offrendo davvero opere contemporanee di alto livello e confermando la bontà della sua programmazione.