di Alfredo Somoza
Non soltanto in Europa ma anche in America Latina la pandemia sta mettendo a nudo i differenti approcci alla salute dei vari Stati. I Paesi latinoamericani che meglio se la stanno cavando sono Cuba, Costa Rica, Paraguay e Uruguay.
I primi due per via dei loro avanzati sistemi di medicina preventiva territoriale: Cuba e Costa Rica hanno una struttura sanitaria che prevede al vertice l’ospedale, come accade ovunque, ma poggia su un’ampia e solida base articolata in ambulatori e, soprattutto, personale medico e paramedico in costante contatto con la popolazione, anche a domicilio. Negli anni, entrambi i Paesi hanno investito soprattutto sulle risorse umane, per intervenire prima che i pazienti si aggravino tanto da dover essere ospedalizzati.
Uruguay e Paraguay, in Sudamerica, sono stati invece i due Paesi che hanno applicato con più tempismo e intelligenza le misure di prevenzione e controllo del contagio. Senza demagogia – e anzi, quasi in silenzio – si sono mossi per tempo, controllando il focolaio entro la fine di aprile. L’Uruguay poi ha incassato il risultato dei massicci investimenti sulla sanità fatti negli ultimi quindici anni dai governi del Frente Amplio di Tabaré Vázquez e Pepe Mujica.
Il panorama cambia radicalmente quando si valutano i grandi Paesi dell’area, soprattutto il Brasile, che in questi giorni ha superato per numero di decessi giornalieri gli Stati Uniti. I quattro grandi errori che hanno fatto precipitare la situazione in Brasile partono dall’azione del presidente Jair Bolsonaro, che non solo ha minimizzato la pandemia, ma ha anche costantemente istigato la popolazione contro ogni misura di prevenzione ordinata dai governatori locali.
Non solo: è stata la stessa presidenza a inondare il web e la televisione di fake news che volevano il coronavirus in tutto uguale a un raffreddore, o che proclamavano la clorochina come rimedio universale per Covid-19. Ascoltare ogni giorno il proprio presidente minimizzare il pericolo ha generato una sensazione di falsa sicurezza che ha favorito i comportamenti a rischio. Altro errore è stato la quarantena a macchia di leopardo, con gli Stati governati dalle forze del centrosinistra che hanno imposto il lockdown, mentre quelli governati dagli alleati di Bolsonaro hanno continuato come se niente fosse.
E ancora: si sono susseguiti tre ministri della Sanità in 30 giorni, i primi due cacciati perché avrebbero voluto seguire le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nel frattempo, contrariamente ai pronostici locali che prevedevano un ritorno della situazione sotto controllo a metà maggio, è appena iniziata la fase peggiore. Questa tempesta perfetta si è abbattuta sulla struttura sanitaria del Brasile, un sistema diviso tra sanità privata d’eccellenza, e sanità di bassa qualità per i poveri, che peraltro non copre nemmeno l’intera popolazione.
Sono infatti gli abitanti delle favelas che stanno pagando il prezzo maggiore. Quei quartieri spesso senz’acqua e senza servizi che soltanto durante il governo di Lula ebbero un minimo di attenzione sanitaria, grazie all’intervento di medici cubani. Medici che, a differenza di quelli brasiliani, andavano davvero a lavorare nelle favelas e che Bolsonaro, tra i suoi primi atti di governo, ha rimandato a casa.
Questo schema si ripete in diversi Paesi dell’area, sanità per ricchi e sanità per poveri, e nemmeno per tutti. In Perù, Bolivia, Colombia, Cile, Messico e Argentina, malgrado risposte politiche più adeguate rispetto a quella brasiliana e numeri meno drammatici, i problemi sono gli stessi, e risalgono agli anni ’90, quando l’ondata di privatizzazioni si diffuse in quasi tutto il continente. Centralità dell’ospedale, abbandono del territorio e della prevenzione, sbandamenti politici.
Il coronavirus non poteva trovare migliore terreno per mettere a nudo le contraddizioni sociali generate dalla politica dell’odierna America Latina.