di Francesca Radaelli; fotografie di Dario Erba
“Si può parlare di morte?” Questo il titolo del convegno organizzato da Caritas Monza lo scorso 11 febbraio presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, in occasione della Giornata del Malato.
La domanda, impegnativa e coraggiosa, ha innescato una mattinata densa di racconti di esperienze e riflessioni filosofiche su un tema decisivo per il senso del nostro vivere, ma che spesso si tende a “nascondere sotto il tappeto”, benché sia invece l’unica certezza che abbiamo.
Dopo la preghiera iniziale condotta dai Cappellani dell’ Ospedale S. Gerardo Don Riccardo Brena e Don Massimo Pirovano, è intervenuto a portare i saluti istituzionali il professor Silvano Casazza, direttore generale Fondazione IRCCS San Gerardo dei Tintori di Monza, che ha ricordato la mission dell’ospedale: la cura delle persone senza dimenticare gli aspetti spirituali. Quindi Monsignor Luciano Angaroni, vicario episcopale Zona Pastorale V, ha sottolineato l’importanza del parlare di morte dal punto di vista cristiano per dare evidenza alla vita.
Di fronte alla morte: due testimonianze
Fabrizio Annaro, moderatore del convegno, si è soffermato l’importanza della condivisione rispetto a questi temi, che suscitano inquietudine ma attraverso i quali si può cercare un senso al tempo che scorre. Quindi al pubblico sono state proposte due testimonianze. La prima è stata quella di Antonio Perrone, diacono del decanato di Villasanta, che ha raccontato un’esperienza pre-morte da lui vissuta anni prima: “In un attimo mi sono in un luogo pieno di luce: era sostanziosa, piena. Ho avuto una sensazione di serenità tremenda. Ero immerso in questa luce dorata: ero io stesso luce. Non c’era in me nessuna paura, ma solo un grande senso di pace”.
La seconda testimonianza è stata la lettura di un testo di Mario Colombo, noto medico di famiglia mancato nel 2021, ricco di riflessioni articolate sulla morte, come la constatazione che “nonostante i progressi della ricerca medica la gente si ostina a morire: eppur si muore”, ma anche di propositi per la vita formulati a partire proprio dalla consapevolezza della morte, come quello di “ricambiare i doni della vita con un vivere creativo”.
La tavola rotonda che ha seguito queste due testimonianze ha visto gli interventi di Luciano Manicardi, monaco di Bose, Raffaele Mantegazza, pedagogista e docente universitario, Emanuela Mancino, anch’ella pedagogista e docente universitario, Luisa Sorrentino, psicologa, e Francesca Galbiati, direttrice sanitaria dell’hospice di Santa Maria delle Grazie.
Manicardi: la morte dà forma alla vita
Luciano Manicardi ha sottolineato come la specificità dell’uomo sia proprio nella coscienza di dover morire, come dimostra la cura per il cadavere presente fin dalla preistoria. “E’ proprio la morte, la coscienza di dover morire che dà origine al pensare. La morte è ciò che ci interpella. Senza una fine l’uomo potrebbe darsi un fine? Solo ciò che ha un limite può avere una forma: per questo la morte non è solo un atto finale, ma qualcosa che accompagna il nostro vivere, essenziale per intraprendere la conoscenza di noi stessi. Così parlare della morte, significa parlare della vita e riflettere sulla morte permette di dare un senso al vivere”.
Manicardi si è poi soffermato sul fatto che la società occidentale di oggi sia stata definita come una “società post mortale”: “L’uomo ha sempre nutrito il sogno di immortalità ma la novità di oggi è che questo sogno sembra diventare realtà: si muore “di” qualcosa, qualcosa su cui si può intervenire per allungare il limite della vita. La morte non appare più ineluttabile, ma come l’ultimo incidente”. Anche l’idea della “bella morte” è mutata radicalmente: “Oggi la bella morte è la morte che arriva all’improvviso, in cui non si soffre fisicamente: una morte che non comporta il morire. Eppure nelle litanie della liberazione si chiedeva al Signore: “liberaci dalla morte improvvisa” e s. Benedetto raccomandava di avere sempre sotto gli occhi la presenza della ragione”. La morte a cui si cerca di non pensare in realtà può educare la vita interiore. “Per questo occorre ridare parola alla morte, ascoltarla, imparare da lei. Occorre parlare di morte per addomesticarla e integrarla nella vita”.
Mantegazza: riavvicinarsi alla morte attraverso “bocconi quotidiani”
Raffaele Mantegazza ha delineato all’inizio del suo intervento proprio questo percorso di progressivo allontanamento della morte che ha caratterizzato la nostra storia. Se nel 1200 la leggenda dei tre vivi e dei tre morti mostrava degli individui che incontravano sé stessi morti, con la diffusione, tre secoli dopo, della “danza macabra” come rappresentazione teatrale e pittorica non si incontra più l’individuo ma la categoria (il vescovo, il professore, il nobile, …). Successivamente si afferma l’idea del “trionfo della morte” in cui la morte rappresentata con la falce, diventa “uguale per tutti”. “In questo modo”, ha sottolineato Mantegazza, “la morte viene depersonalizzata, non riguarda più l’individuo, riguarda tutti, quindi non riguarda me”. Proprio come nella “Morte di Ivan Ilic” di Tolstoj, il protagonista si spaventa quando quando capisce che non si tratta di pensare in astratto che “tutti gli uomini sono mortali”, ma che deve morire proprio lui.
Quindi Mantegazza ripercorre un passaggio analogo nella struttura dei monumenti funebri delle tombe che dalla raffigurazione del cadavere passano progressivamente a quella della statua raffigurata in posizione seduta o in piedi. “Il processo di allontanamento della morte inizia da quello della mia morte. Eppur si muore! E muore tutto in natura: la morte è come un brivido che attraversa il vivente e il non vivente”. Mantegazza quindi si è soffermato sull’importanza della cura nell’ambito medico: “Il malato è sempre curabile, la cura va oltre la guarigione: la sconfitta di un medico è l’abbandono del paziente, non il fatto che non guarisca”. Come prepararsi alla morte? Secondo Mantegazza occorre abituarsi a vivere con intensità i momenti di morte quotidiana, ad assaggiare piccoli bocconi di morte, fin dall’infanzia. “Non potremo arrivare mai all’accettazione totale della morte ma potremo provare ad addomesticarla”.
Galbiati: la cultura dell’hospice
Francesca Galbiati, direttrice dell’hospice Santa Maria delle Grazie, ha spiegato al pubblico in che cosa consistono le cure palliative che agiscono sui sintomi delle persone che non possono essere guarite: sul dolore, sulla dispnea, sul distress psicologico, sulle agitazioni psicomotorie. “La seconda terapia è però la relazione con il paziente, che è consapevole di perdere autonomia giorno dopo giorno e prova un dolore globale, fisico e psicologico. La cura è inoltre estesa anche alla famiglia, ai caregiver, con cui occorre fare squadra”. L’equipe dell’hospice è composta da medici, persone che si prendono cura dell’igiene dei pazienti, psicologo e curatore spirituale. I membri dell’equipe operano sul territorio attraverso l’assistenza domiciliare, oppure nella struttura residenziale dell’hospice dove ci sono 20 posti per il ricovero di pazienti che vogliano sollevare la famiglia o che non siano consapevoli.
Sorrentino: vita e morte nella nascita
La psicologa Luisa Sorrentino ha invece parlato del rapporto stretto tra vita e morte che si presentano quasi unite al momento della nascita. “La morte non la conosciamo, dunque è difficile da immaginare. Nell’immaginare mettiamo spesso la proiezione di cose che sono già accadute. Per questo la nascita e i primi mesi di vita sono un percorso di distacco graduale, che incide sull’identità e la personalità dell’individuo, come spesso riscontro nella mia attività di psicoterapeuta”. Luisa Sorrentino lavora anche con i malati di Sla al progetto scriveresistere: “E’ un’esperienza che mi sta insegnando molto, alcune di queste persone vivono un’esperienza di relazione e dialogo con la morte, anche attraverso la scrittura”.
Moltissime le domande del pubblico ai relatori, a dimostrazione che di morte si può parlare eccome: alcune sollevano temi etici complessi, come i confini tra cura e accanimento e l’opportunità di rispettare o meno la volontà di ci vuole morire.
Mancino: parole di cui prendersi cura
Nell’intervento conclusivo Emanuela Mancino ha ripreso alcune delle parole emerse durante il convegno: il concetto di “cura”, che contiene in sé la dimensione dell’attenzione, considerata la prima forma di amore; l’azione di “addomesticare” la morte, ossia portare a casa qualcosa che è fuori, renderla familiare; il concetto di “brivido” che fa tremare (“tremendo”) e ci fa sentire in connessione con il tutto; il ruolo dell’arte e della parola per creare, dare forma alla vita, addomesticare la morte. Perché parlare di morte non solo è possibile, ma è soprattutto un importante esercizio di potere.
Riprendo l’ultimo punto del mio intervento durante il convegno poichè lo considero molto importante e per motivi di tempo l’ho solo accennato.
I dati ci dicono che i suicidi giovanili sono una delle principali cause di morte nei giovani di questa epoca e che negli ultimi anni sono in aumento.
È un fatto terribile e preoccupante e sembra delineare un’immagine di morte, e quindi di vita, fallimentare rispetto al tentativo di senso e di addomesticamento della morte centrale negli interventi dei relatori del convegno.
L’unica certezza della vita terrena di ognuno di noi è che essa incontrerà la propria fine nell’istante inevitabile della morte. Nessuno conosce il tempo esatto della propria morte ma razionalmente sa che arriverà, anche se emotivamente sembra difficile crederci davvero.
“Ricordati che devi morire!”
“Sì, sì … mo me lo segno”
risponde Massimo Troisi nel film Non ci resta che piangere.
È una battuta che ha fatto ridere generazioni di spettatori, e fa ridere tuttora. È un riso scaramantico? mi domando. Terminato il film lo spettatore scompare, e l’uomo che resta che se ne fa di questo monito? Lo prende sul serio o si tappa le orecchie?
Avere chiaro nel fondo della tua coscienza che un giorno, non sai quale, morirai è il più grosso stimolo a giocarti bene l’oggi, a orientarlo nel tentativo di dare un valore all’avventura della tua vita che, a mio modo di vedere, ha molto a che fare con il tentativo di scoprire la tua autenticità ed esprimerla con una libertà rispettosa.
La vita dell’umanità è un puzzle fatto di tante tessere viventi. Ciascuna vita individuale incarna una tessera e se essa manifesta l’autenticità rispettosa del suo protagonista, allora contribuisce alla realizzazione di un disegno finale armonico dove la bellezza è epifania della verità. Sappiamo bene però che ciò non sempre avviene.
Perchè le vite non sempre riescono a trovarsi autentiche, perchè non sempre sono rispettose, perchè alcune si spezzano intenzionalmente anzitempo e altre si esprimono come se non sapessero che dovranno concludersi?
Se la consapevolezza della Morte è il potente motore per cercare di dare forma alla propria Vita, perchè tanti giovani scelgono la Morte per evitare di affrontare la Vita?
Forse non si sentono capaci di trovarvi o darvi una forma, la propria? Si sentono inadeguati, non all’altezza delle aspettative proprie e altrui, temono il giudizio, non tollerano l’imperfezione?
Ma come si fa a trovare e dare forma alla vita? Bisogna provare, provare a vivere, provare e verificare che si può sbagliare ma ci si riesce a rialzare aggiustando la direzione, che la vita è fatta di morsi, alcuni dolci e altri amari, che le frustrazioni, i rifiuti, i disaccordi, le perdite sono i bocconi amari che l’esistenza ci chiede di imparare a mandare giù senza per questo soffocare. Quando per paura o vergogna non impari a inghiottirli e ti fai ingoiare da essi, dai bocconi amari intendo, allora la Morte si mostra non come consapevolezza che ti spinge a non rinunciare di cercare di dare forma alla tua vita giorno dopo giorno, ma ti appare come la fuga estrema da una vita intollerabile di cui non speri più di poter costruire e trovare una forma.
Non c’è la possibilità e la pazienza di sperare, così la Morte si trasforma in mezzo elettivo di rinuncia adesso anzichè di realizzazione nel cammino di domani.
Il rapporto che una società instaura con la Morte può avere molto a che fare con il modo in cui gli individui di quella società si giocano la vita, giovani in primis.
L’ adolescenza è un passaggio critico, faticoso e spesso doloroso, è una trasformazione a 360°: corpo, emozioni, pensieri, relazioni, bisogni, aspirazioni. È un passaggio di forma sconvolgente, affascinante e terribile allo stesso tempo, euforico e spaventoso. È il periodo delle sfide evolutive per eccellenza e destabilizza parecchio. Sbocciare implica anche forzare, aprirsi, mostrarsi … e ciò non significa solo profumi e colori, ma anche rischi e incertezze.
Nella mia travagliata adolescenza io ho il ricordo di periodi molto bui dove mi pareva di non vedere la fine del tunnel. Era allora che il solito pensiero si affacciava: vorrei non esistere, preferirei non essere nata. Me lo ricordo benissimo questo pensiero e ciò che mi terrorizzava era l’eventualità che tale pensiero potesse evolvere in un pensiero di morte e da li in un progetto suicidario, in un atto estremo concreto. Mi rendevo conto della differenza sostanziale tra il desiderio di non esistere per il fatto di non essere mai nata, e il pensiero di farla finita. E avevo paura di potere fare il salto dal primo al secondo pensiero, di perdere il controllo. Fortunatamente non è successo. Il secondo pensiero lo vivevo come una minaccia la cui eventualità non mi sollevava, ma mi impauriva. Ero in grande difficoltà, è vero, ma se quella vita che allora avrei talvolta desiderato non avere ricevuto tra le mie mani, tuttavia l’avevo ricevuta, allora tanto valeva lottare per vedere dove sarebbe andata a finire. A quel punto ne valeva comunque la pena, valeva la pena di tenerla e correre il rischio di viverla.
Entrambi i pensieri (non vorrei essere nata e vorrei farla finita) sono a fronte di una grande difficoltà esistenziale ma il pensiero suicidario che porta all’atto estremo implica l’assenza totale di speranza x il futuro, la rinuncia assoluta di ogni desiderio xchè tanto percepito irrealizzabile, l’incapacità di scorgere la benchè minima potenzialità e valore nella propria esistenza e nel proprio essere.
Ecco, io credo che per addomesticare la Morte e riportarla nella dimensione costruttiva e orientativa di vita e di forma della vita, a ciascuno la sua, bisogna aiutare questi ragazzi a sperare e desiderare perchè in assenza di speranza e desiderio essi stessi si abbandonano alla Morte che li inghiotte come unica soluzione all’insopportabile prospettiva di una vita priva di forma futura dove fatica e sofferenza non trovano una possibilità di senso.
La consapevolezza della Morte pone l’urgenza di impegnarsi a delineare una forma sensata di vita, giorno dopo giorno, senza procrastinare all’infinito, ma la società tutta deve
educarsi ed educare all’apprendimento di quegli strumenti emotivi, cognitivi e spirituali che rendono possibile per ciascuno il desiderio di dare forma alla propria vita, una forma legittima per ciascuno.