di Mario Colombo
Cantava anni fa un famoso cantautore in una sua bella canzone “Antenor”.
“Quante volte per gli altri è vita quello che per noi dura solo un minuto“.
Mi sono tornate alla mente queste parole pensando al ritorno in Italia di Silvia Romano.
Dapprima ho pensato a Banksy che la immortala con la tesi in mano, mentre sorride circondata da bambini africani, vestita con il costume tipico islamico, con i Payot (i tipici boccoli) ebraici, con una tuta arancione mentre canta “Hare Krishna” tutto in un’unica sua opera sopra un muro.
Ma cosa è entrato nelle nostre case del ritorno di Silvia? Prima un filmato di 28″ e poi un altro di 2’56”. In quei filmati eravamo un po’ noi che abbracciavamo una figlia con le reazioni che tutti avremmo: baci, abbracci, saluti, sorrisi, né più né meno. Queste sono le immagini che ci vengono date e fino a lì ci riconosciamo tutti.
Ma il resto? Intendo tutto il resto: il rapimento, l’angoscia, la paura, la speranza, la prigionia e poi la liberazione, il rientro, il trascorrere delle giornate assieme ai genitori, agli amici di questo cosa sappiamo cosa sapremo? Nulla o (speriamo) poco. Perchè questa è la vita.
Tornata in Italia nel giorno della festa della mamma, la sua vicenda è un po’ come quella di una mamma: ciò che si vede sono pochi secondi, minuti di filmati, ma ciò che lei ha vissuto non è raccontabile, così come non lo è ciò che fa una madre. Credo che chiunque di noi abbia avuto figli abbia vissuto con una certa noia l’esperienza di ascoltare i racconti di bambini piccoli: di come mangiavano o non mangiavano, di come giocavano, come dormivano o non dormivano, delle apprensioni per le normali malattie che fanno i bambini. Racconti che avevano un pò la presunzione di narrare quella quotidianità.
Il lavoro di una madre, di un padre è proprio fatto di quotidianità inenarrabili, tutti le conosciamo se abbiamo avuto figli, ma ognuno lo ha fatto nell’unicità dei suoi giorni e della sua personale esperienza e raccontarle quelle fatiche difficilmente si riesce a rendere un’idea che sia più della noia e per questo il racconto stesso rischia di svilirle.
“Una vita vera comincia senza sapere che cosa ti aspetta” dice Gianmario Villalta nell’ultimo suo libro: “L’apprendista”. Questo rende la vita faticosa forse, ma degna di essere vissuta.
Le scelte che facciamo o abbiamo fatto nella nostra vita sono apparse sempre diverse da come le avevamo immaginate: è il bello della vita, ciò che la rende interessante, ciò che ci fa sorprendere.
Di fronte a tutto ciò si entra quindi in punta di piedi, permettiamo agli altri di entrare nella nostra vita proprio così: solo facendo un pezzo di strada con noi, lasciando disvelare ciò che non è narrabile, lasciando cogliere ciò che non è raggiungibile in altro modo, perchè la vita la si custodisce anche in modo un pò geloso.
Ciò che vediamo dunque è l’apparenza, pochi secondi, pochi minuti.
Per gli altri chi siamo: quelli che sanno fare bene il pane? Quelli che sanno insegnare bene? Quelli che sanno disegnare un bel progetto? Quelli che sanno costruire una bella casa, programmare un tornio a controllo numerico, intagliare legni durissimi, preparare una brochure, fare un tagliando ad un auto? Già ma il resto? Ciò che questo ci ha richiesto in termini di tempo, fatiche e delusioni? Chi lo sa? Chi lo conosce? Noi e qualcuno che ci vuole bene, nessun altro.
Che errore considerare vita ciò che si vede scorrere in un minuto. Quale è Silvia? Quel minuto in cui l’abbiamo vista in tv non ci permetta di considerarla come se fosse tutta la sua vita. Quel minuto deve servire solo per abbracciare, per baciare, per sorridere, per salutare, le uniche cose che possiamo sentire come urgenti da fare in quello che per lei vale quel minuto.