di Laurenzo Ticca
12 dicembre 1969, Piazza Fontana. Basta una data e un’indicazione topografica per riportare alla mente la memoria di una strage. Un eccidio, diciasette vittime e oltre ottanta feriti, che ogni anno viene commemorato. Il ricordo dei morti e la consapevolezza che la Banca Nazionale dell’Agricoltura rappresenta il palcoscenico d’esordio della strategia della tensione.
Sappiamo tutto, o quasi di quel giorno. Conosciamo la cronaca, mille volte ripercorsa. Sappiamo anche altro: che fu una strage fascista, organizzata da una cellula veneta di Ordine Nuovo. Sappiano che fu la risposta militare alle imponenti lotte sviluppatesi nel biennio 68/69. Sappiamo, infine, che la stagione delle stragi aveva l’obiettivo di colpire al cuore il riequilibrio dei rapporti di potere e di redistribuzione della ricchezza che le mobilitazioni operaie avevano imposto.
Un giovane che oggi affronti quel capitolo della nostra storia non sa, forse, che quella deflagrazione, a pochi passi da piazza del Duomo, rappresenta il capitolo decisivo di una lunga, sordida lotta contro la democrazia avviata nell’immediato dopoguerra, alimentata da servitori infedeli annidati negli apparati di sicurezza dello stato. Un progetto eversivo che aveva addentellati nel mondo politico italiano e internazionale.
Un filo nero intriso di sangue che ha cominciato a dipanarsi nell’immediato dopoguerra a partire dal primo maggio del 1947 con la strage di Portella della Ginestra.
Quel giorno la banda Giuliano sparò sui lavoratori riunitisi nella Piana degli Albanesi (Palermo) per celebrare la festa del lavoro e la vittoria del fronte popolare (Pci-Psi) nelle elezioni regionali del 20 aprile. Morirono undici persone in quella che possiamo considerare la prima strage politico-mafiosa nell’Italia liberata.
Da allora qualcuno, qualcosa, non ha mai smesso di tramare nell’ombra.
Per cogliere l’origine di un processo così profondo e devastante è necessario volgere lo sguardo dalla Piana degli Albanesi all’immediato dopoguerra e alla mancata epurazione degli elementi compromessi con il fascismo. Personale amministrativo , alte gerarchie militari, burocrati, che non accettavano la democrazia rappresentativa , che vedevano nelle sinistre una minaccia mortale, convinti che la Repubblica nata dalla Resistenza dovesse essere posta sotto tutela, condotta, se necessario, verso svolte autoritarie.
Il marcio, insomma, affonda le sue radici nella mancata Norimberga italiana.
Molti dei criminali di guerra italiani (più di ottocento) segnalati dalle Nazioni Unite nel dopoguerra perché fossero portati alla sbarra non solo non subirono alcun processo, ma furono cooptati nelle strutture statuali amministrative e di sicurezza.
Basti pensare che i primi quattro questori di Roma, tra il 1945 e il 1960, durante il ventennio erano stati ispettori dell’Ovra, settore segreto della polizia politica fascista. Uomini che avrebbero rappresentato una sorta di continuità ideologica tra fascismo e post-fascismo. Terreno fertile per garantire l’intreccio tra conati autoritari, ricorso alla violenza, propositi golpisti, depistaggi e insabbiamenti.
Verità che emergono dolorosamente nelle parole affidate da Aldo Moro ai suoi carnefici durante i 55 giorni di prigionia. Nel memoriale raccolto dalle Brigate rosse il presidente della Democrazia Cristiana ripercorre alcuni passaggi drammatici nella storia della Repubblica: dalla nascita del governo Tambroni con i voti dei fascisti (1960) ai progetti di golpe (1964) attribuiti al generale De Lorenzo alla Strage di Piazza Fontana per concludere che “la cosiddetta strategia della tensione ebbe la finalità, anche se fortunatamente non conseguì il suo obiettivo, di rimettere l’Italia nei binari della “normalità” dopo le vicende del 1968 e l’autunno caldo”.
A parere di Moro i servizi segreti operarono per “bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e ricondurre le cose attraverso il morso della paura a una gestione moderata del potere”.
Moro confermò anche l’ esistenza di “strateghi della tensione”. E del resto gli eccidi, le stragi, hanno accompagnato la storia repubblicana ostacolando mutamenti politici che avrebbero scardinato vecchi equilibri di potere. Da Portella alle stragi fasciste del 1969/1974 all’agguato di via Fani e al sequestro e l’uccisione di Aldo Moro.
La politica delle stragi è stata adottata in tutt’altro contesto anche da Cosa nostra con la stagione delle bombe del 92/93 . Anche in quel caso dalle viscere del paese sono emerse forze oscure – Falcone parlò di menti raffinatissime – menti decise a impedire che l’Italia voltasse pagina, proprio come avvenne in piazza Fontana il 12 dicembre del 1969.