Piazze giovani: come svegliarsi dopo il sonno

di Enzo Biffi

Dei giovani non sappiamo mai niente. E neppure sappiamo più niente di quando lo siamo stati noi, perché la memoria ad un certo punto deve tenere il passo al calo di energia.

Allora, ogni volta che una nuova generazione si palesa, la sorpresa per il mondo adulto è la medesima e vince il gioco retorico e inutile del confronto epocale.

Sono queste le gabbie del pensiero quando, col pretesto di prudenti consigli, ci si trincera solo dietro banali timori e tutto questo con la pretesa (molto contemporanea) di spiegare agli altri ciò che noi non capiamo.

Questa volta all’inizio furono i venerdì a tema ecologista, ma presto arrivarono anche i raduni con simboli ittici e poco importa se la genesi è data da una ragazza svedese o da quattro giovani di varie provenienze.

Quel che appare chiaro è l’urgenza, la spontaneità del gesto e la chiarezza del messaggio senza se e senza ma.

Si chiede ascolto, fiducia e cambiamento, e lo si chiede dall’alto della giusta utopica visione “perché a vent’anni è tutto ancora intero“.

Il canto corale intonato a piena voce nelle piazze è di fiera speranza ma anche di rabbia verso chi non solo gli ha consegnato un mondo di macerie, ma vorrebbe anche negar loro la possibilità di rivendicarne una possibile metamorfosi.

Se un peccato perdonabile può essere considerato aver trascurato l’eredità in passivo da lasciare ai posteri, ben più grave da parte nostra è ora l’atteggiamento di irrimediabilità e pessimismo che pedantemente riserviamo loro.

Sembriamo lì tutti ben occupati non solo nel nostro personale esercizio cinico del disincanto ma soprattutto nel consegnarlo ai giovani.

Con la velleità del sordo che spiega al prossimo ciò che lui non sa più sentire, così noi, confusi e vinti, ci rapportiamo ai nostri misteriosi figli avvolti dalla nebbia d’ansie in cui stiamo smarriti, spaventati e insicuri.

Della giovinezza dovremmo invece riconoscere e amare il suo vento caldo: scirocco vigoroso che spazza la nostra stagnante nebbia colma delle sue nocive polveri, per altro da noi generate.

Carichiamo su di voi il peso dell’innocenza perduta, proiettiamo sulla vostra verginità di cuore il tradimento della nostra mentre, goffamente, ci giustifichiamo.

Vi guardo così, giovani dei nostri giorni, mi ci mischio un po’ come un esploratore più impacciato che modesto. Cerco, e qualche volta trovo, un confronto alla pari che funziona solo quando dimentico non la mia età ma il mio scetticismo, quando riesco a dire il mio giusto solo dopo aver ascoltato il vostro tutto.

Vi guardo così, invadere le piazze naturalmente, come un’alta marea invade le spiagge di Normandia, come svegliarsi dopo il sonno, come il ciclo infinito del tempo.

Vi osservo e vi invidio l’età perfetta per ubriacarsi di vita, annegare nello stupore dell’esistenza, vincere sulla paura e ascoltar solo la vostra voce.

Perché ai vent’anni non si chiede misura, ma la speranza dell’immaginazione.

Perché ai vent’anni non si chiede la ragione solo perché, semplicemente, si ha ragione.

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