Pietro racconta la propria storia, era stato uno dei tanti soldati italiani internati dai tedeschi nei campi di lavoro dopo l’Armistizio dell’8 settembre del 1943, quando l’Italia, da Paese alleato, si trasformò per i nazisti in Nazione nemica.
Ricorda con nostalgia gli anni trascorsi a Napoli, la vita che conduceva in famiglia, il silenzio della madre nei momenti che precedettero la sua partenza come militare, il fallimento del matrimonio con la giovane Lillina, dalla quale aveva avuto una figlia, i colori e la bellezza della sua città. Parla poi del periodo in cui era internato a Kamen, in Westfalia, per lavorare nelle miniere di carbone, dove la vita era durissima, si pativano freddo, fame e maltrattamenti, dove la dignità non era neanche più un ricordo e si resisteva solo aggrappandosi all’istinto di sopravvivenza. Eppure, malgrado tutto, qualcosa di buono esisteva anche lì, perché, dice, non si sapeva più cosa fosse l’egoismo e si soffriva insieme come fratelli, condividendo il poco cibo disponibile e stringendosi gli uni agli altri per affrontare il freddo.
Ma la vicenda di Pietro si alterna, nel romanzo, a quella di due uomini che stanno affrontando un viaggio e molte pratiche burocratiche per poter riportare in Italia la salma di un loro zio morto in Germania mentre era prigioniero, il Caporale Pietro Sibillo…
Giuseppe Ardito, scrittore teatrale e autore musicale, racconta di quei militari italiani internati in campi di lavoro che non avevano nulla di diverso dai lager, pagando per la colpa di aver voluto rimanere fedeli alla Patria di appartenenza, le cui famiglie non hanno avuto mai alcun risarcimento; alternando eventi storici realmente accaduti e finzione narrativa, cerca di infrangere il silenzio e di restituire alla memoria collettiva quelle vittime della Seconda Guerra Mondiale dimenticate dalla Storia.
Un romanzo breve ma molto intenso, che offre al lettore l’opportunità di sfogliare quelle pagine ancora troppo poco conosciute del nostro passato.
Valeria Savio