di Marco Riboldi
L’ ultimo intervento pubblicato, sulla competenza del politico, ha prodotto in alcuni lettori (che ringrazio per la attenzione di cui mi onorano) una certa curiosità e qualche osservazione. Mi pare il caso di approfondire un po’, sulla scorta di tali osservazioni.Si diceva che la competenza del politico consiste nella capacità di comprendere le necessità del popolo e di organizzare una efficace risposta politica e programmatica a tali necessità. Giusta la lezione gramsciana, tali necessità si presentano come esigenze di blocchi storico-sociali, che sulla scena politica portano richieste e bisogni sempre mutevoli, come mutevoli sono le compagini sociali e le condizioni economiche e politiche.
Chi recepisce tali richieste è il politico, cioè una persona, individuale o collettiva, che parte da una visione ideale, da una prospettiva, e deve essere in grado di inquadrare in tale sua prospettiva le risposte necessarie. Abbiamo a questo punto esperienze storiche: abbiamo visto politici del tutto incapaci di comprendere le necessità evidenziate, che vengono squalificate o negate, come non avessero dignità; abbiamo visto politici che si adeguano in tutto, semplicisticamente, a qualsiasi richiesta anche se palesemente relativa a privilegi di settori ristretti, a discapito del bene collettivo; abbiamo visto politici che tentano faticosamente di comprendere, mediare, confrontarsi per conseguire per quanto possibile il più ampio bene comune.
Vorrei evidenziare due elementi. Il primo è che il vero politico (ripeto: intendo il politico come soggetto, sia l’individuo che fa politica, che il gruppo, partito, movimento) non evita mai il confronto, per quanto lavoro, quanta pazienza, quanta difficoltà ciò comporti. Quando ci si trova di fronte a quella che sembra una incomprensibile scelta dell’elettorato di soluzioni palesemente sbagliate, la domanda giusta non è “come fanno a non capire?”, ma “come mai non riesco a rendere evidente che la nostra proposta è quella migliore? Quale esigenza profonda dell’elettorato non riesco a soddisfare, al punto tale che i cittadini accettano le altre soluzioni proposte?”
Chi evita di mettersi dentro i sentimenti profondi dei cittadini non fa politica efficace e si condanna alla predicazione nel deserto. Sia chiaro: anche questa può essere una scelta. La politica ha necessità di un polo profetico che consiste nel sognare ed indicare orizzonti più lontani.
Ma è un altro mestiere, che non può mancare, ma che non è quello di chi si candida a governare.
A me pare che questa capacità di confronto, soprattutto con i corpi intermedi della società e con il sentire profondo del popolo, sia molto mancato, negli ultimi anni, soprattutto a sinistra.
Secondo elemento. La scelta di essere soggetto politico comporta la necessità di una elaborazione culturale, nutrita di cognizioni e di visioni ideali. La tradizione politica mostrava solide visioni di base, sulle quali si elaboravano una strategia di intervento e una tattica di azione. Quando manca questa solidità, manca la propria identità politica, che deve necessariamente andare a cercare la propria ispirazione tutta o quasi tutta nel “sentire” dell’elettorato. Poche idee, magari anche un po’ confuse, ma largamente coincidenti con la più immediata reazione della gente di strada.
Superfluo indicare come questo atteggiamento, nell’epoca dei social media, sia da un lato facilmente attuabile, dall’altro pericolosamente auto-alimentabile, creando un corto circuito per cui si è contemporaneamente coloro che rispondono al bisogno e coloro che creano artificialmente lo stesso bisogno, utilizzando gli strumenti di comunicazione.
Sfruttando abilmente i mezzi di comunicazione, insomma, non ci si confronta realmente con i cittadini, ma si cerca di dire quel che i cittadini vogliono sentire, forzando anche a tempo debito la circolazione di opinioni. Questo va bene per i movimenti demagogici e populisti, che non hanno una forte identità ideale
(tutti parlano di superamento delle tradizionali distinzioni tra ideologie, non a caso) e si affidano al sentire comune, a quel senso comune che il Manzoni ci ammoniva essere nemico del buon senso.