di Camilla Mantegazza
Raccontare, ricordare e interpretare. Tre gli obiettivi –tutti ugualmente necessari- del seminario “Memorie al Presente”, tenutosi a conclusione della mostra allestita all’Urban Center “Memorie senza Scadenza”. Una mostra per quelle “memorie che hanno radici nel cuore, nella partecipazione umana e che nascono dalla semplice conoscenza delle storie accadute a tanti uomini e donne senza colpa”. Si racconta il disastro del Frejus, del Molare, del Gleno, della Val di Stava, del Vajont. Si ricorda, tramite le testimonianze di chi, per fato o per fortuna, non era lì. Si interpreta, per riconoscere come oggi si declinino i temi che hanno determinato queste grandi tragedie, che hanno segnato pagine amare della storia del nostro Paese: la necessità di energia, la costruzione di grandi opere, le luci e le ombre, le responsabilità, le incurie, le connivenze.
Dal 1923 –Gleno- al 1985 –Stava-, gli stessi problemi: varianti in corso d’opera, studi geologici insufficienti e mancanza di collaudo. Ne è convinto Giorgio Temporelli, fisico, divulgatore scientifico, che sostiene, persuaso, che “non è stata la natura la principale attrice, bensì la cupidigia e la superficialità dell’uomo” a determinare tali disastri. Certo, si può sostenere che la millenaria pioggia del 1935 fu la causa del crollo della diga del Molare: 15 m3 al secondo di acqua ogni km2, superando analoghi verificasi nell’Europa di oltre due secoli.
Oppure, si può fare giustizia ai 111 morti e all’incalcolabile distruzione, e aggiungere che il terreno su cui venne costruito lo sbarramento secondario presentasse zone di permeabilità elevata e che gli scarichi non fossero stati progettati valutando tutti gli scenari possibili. Si può anche citare le numerose varianti in corso d’opera atte a minimizzare i costi scaturenti da numerose problematiche costruttive, a loro volta determinate dalle scadentissime caratteristiche delle rocce di fondazione, oppure sottolineare il fatto che la seconda diga fosse stata costruita per ovviare agli errori commessi durante la progettazione della prima.
E si può cambiare idea, interpretare, capire, affinché la memoria sia d’insegnamento per il presente. Numerose sono le mancanze di accortezze, infinite sono le probabilità che seri studi geologici avrebbero potuto evitare tali disastri, spiega Giovanni Crosta, docente dell’Università Bicocca di Milano. I tecnici spesso sono alla base dei problemi: inveisce, a ragione, Graziano Lucchi, presidente della Fondazione Stava 85. Quei periti, geologi e ingegneri, colmi di conoscenze ma privi di un’etica della responsabilità. Privi di scrupoli nell’anteporre alla sicurezza la redditività economica.
Un crollo può anche non trovare nel tempo giustizia, ma le centinaia –se non migliaia- di morti pesano sulla coscienza di chi, nell’ossessiva logica del guadagno, ha voluto sfidare la natura, facendo trionfare l’incompetenza. Tecnici che sanno scendere a compromessi, grande imprese prive di scrupoli, sfruttamento snaturato e incompetente del suolo e dell’ambiente, mancanza di controlli pubblici, connivenza tra privato e pubblico, mancanza di informazione e di dialogo tra le parti. Poi i disastri, gli incidenti, il “si poteva evitare, qualcuno l’aveva detto, era tutto probabile e previsto”.
E le vite delle comunità locali vittime dell’esproprio e dello sfruttamento incontrollato dei lori territori cambiano. Sono quasi commoventi le parole a riguardo di Angelo Bendotti, presidente dell’Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea, circa il primo grande disastro di Gleno, che ha macchiato la storia del nostro lungo ‘900. Un crollo visto come una “maledizione biblica” per il peccato commesso da coloro che hanno voluto sfidare la natura, che ha segnato un prima e un dopo, divenendo condizionatore del tempo, più di quanto non lo siano state le indimenticabili catastrofi belliche.
Era una valle di valigie, di immigrazione la Val di Scalve. Una valle che guardava con timore e diffidenza alla costruzione di quell’imponente opera pubblica, ma che si faceva consolare dai numerosi posti di lavoro che la diga avrebbe potuto offrire alle comunità ad essa limitrofe. Si parlò di crollo causato da “un atto terroristico”: era il tempo del fascismo. Il tempo è poi cambiato, ma i morti sono rimasti senza giustizia, continua Bendotti.
Tutto questo è il non rispetto delle comunità, della mancata informazione, della superficialità dettata dalla minimizzazione, sostiene Domenico d’Alessio, geologo, esperto di tematiche ambientali e del Parco di Monza, curatore della mostra stessa. Sono tutti problemi attuali, da trasportarsi nel presente, nonostante siano passati decine e decine di anni. Tematiche odierne, anche se ci si vuole soffermare semplicemente su dati statistici: 78 sono le grandi dighe in Lombardia, che si aggiudica così il primato numerico italiano di opere di tal specie. E l’acqua altro non è che una delle nostre principali risorse, dal Medioevo ad oggi, così come lo è, di conseguenza, l’energia idroelettrica per cui la Regione Lombardia ne produce il 27% sul totale italiano.
Una risorsa così importante e così sfruttata che pecca di informazione, come tutte le grandi opere pubbliche. Si pensi alla TAV e alla necessità di legiferare circa una norma per la gestione delle informazioni delle grandi opere pubbliche appunto, che introduca un percorso partecipativo per permettere a ciascuno di dire la sua, coerentemente, tramite un iter guidato.
Questi sono i focus della seconda parte della mattinata di “Memorie al presente”, dibattuta tramite gli interventi di Silvia Castelli, della Direzione Generale Ambiente, Energia e Sviluppo Sostenibile della Regione Lombardia, del suo collega, Carlo Enrico Cassani, di Carlo Brambilla, membro della Commissione Centrale Tutela Ambiente Montano del CAI, di Dario Fossati, UO Difesa del Suolo Regione Lombardia e di Francesco Maria Guadagno, presidente dell’Associazione Italiana Geologia Applicata e Ambientale. Emergono numerose tematiche, non prive di spunti di riflessioni e dibattito. Affiorano numerose verità: la mancanza di informazione e di comunicazione, il poco e spesso nullo interesse delle istituzioni, dei privati e dei cittadini nei confronti di un esasperato sfruttamento del territorio e il bisogno di cambiare. Cambiare sì, con la memoria di quello che già è stato: Frejus, Molare, Gleno, Stano, Vajont.
©fotografie di Giovanna Monguzzi