“Potere al merito?”

di Francesca Radaelli,  fotografie di Daniela Zanuso

Quale merito? E quale potere? Che cosa c’è dietro l’esaltazione della “meritocrazia”, vero e proprio mantra del nostro tempo?

C’è sicuramente la sacrosanta lotta alla corruzione e all’incompetenza, che nella migliore delle ipotesi impediscono sviluppo e progresso, e nella peggiore sono causa di vere e proprie tragedie. Ma c’è anche, più subdolamente, l’idea che chi non raggiunge determinati standard debba essere escluso a priori dalla partecipazione al potere, da quel kratos che secondo la Costituzione italiana dovrebbe appartenere al popolo, al demos, cioè a tutti.

 Difficile definire cosa sia il merito in un mondo percorso da diseguaglianze e ingiustizie sociali sempre più marcate. Difficile anche intravvedere finalità non individualistiche in un potere idealmente esercitato solo dai più “meritevoli”, essendo, peraltro, così controverso il concetto di merito.

Un percorso di formazione a partire da papa Francesco

La riflessione sull’altra faccia della meritocrazia – una faccia problematica, polisemica, scivolosa – è stata il filo conduttore del primo incontro del percorso formativo promosso da Caritas Monza per il 2024, dal titolo “Il pensiero di papa Francesco. Il coraggio di un profeta”. Una serata, quella di lunedì 29 gennaio, che ha inaugurato una formula innovativa nel le modalità di dialogo tra il pubblico e i relatori: non interventi strutturati da parte di questi ultimi, ma riflessioni in risposta agli stimoli e alle riflessioni condivise dai partecipanti all’incontro.

Da sinistra: Fabrizio Annaro e don Augusto Panzeri, di Caritas Monza, tra i promotori del percorso formativo dedicato al pensiero di papa Francesco

Chiamata a misurarsi per prima con questo format è stata l’ospite della serata, Emanuela Mancino, filosofa dell’educazione all’Università Bicocca di Milano, insieme a Gerolamo Spreafico, pedagogista e docente dell’Università Cattolica di Milano.

Punto di partenza della riflessione sono state le parole di papa Francesco, tratte dall’enciclica “Laudate Deum” dello scorso ottobre. Parole che, come ha sottolineato Gerolamo Spreafico vanno a denunciare il pericolo che l’idea di meritocrazia diventi un paravento ideologico “che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere”.

Merito: un problema educativo

Quale rapporto ci deve essere tra educazione e merito? Se è vero che la parola “merito” è entrata oggi persino nel nome del Ministero dell’Istruzione, Gerolamo Spreafico ricorda però che “meritocrazia” ha in sé il verbo merere, cioè guadagnare, e kratos, cioè potere. Campi semantici piuttosto distanti dagli ideali educativi. “Queste parole vanno trasformate di significato ed è un problema educativo”, sottolinea Spreafico. “Abbiamo messo al centro del nostro vivere l’individuo, abbiamo creato una società tecnocratica, consumeristica, in cui la realizzazione di sè coincide con il successo, soprattutto economico. Ma la meritocrazia intesa come potere e guadagno senza condivisione intossica la società. Il papa – continua Spreafico – ci richiama invece a educarci a condividere le risorse che abbiamo, a mettere la meritocrazia in funzione della casa comune, della crescita comune. Le persone con più talenti dovrebbero operare in funzione di un cambio di rotta”.

Da sinistra: Gerolamo Spreafico e Fabrizio Annaro

Le riflessioni dal pubblico

Quando la parola passa al pubblico, interpellato dal giornalista Fabrizio Annaro, il perimetro della questione si amplia. Ci si interroga sulla trappola della gratificazione, del modo in cui l’impegno e il merito debbano essere riconosciuti, del successo come premio. Viene ricordata l’importanza delle competenze per chi svolge un ruolo di governo e si occupa della cosa pubblica. Si riflette sul ruolo dell’educazione: nel senso di educare a dividere con gli altri quanto si ottiene grazie al proprio merito, ma anche nel senso del pensiero di don Milani, teorizzatore di una giustizia distributiva, che impone di dare di più a chi ha meno, che identifica la peggiore ingiustizia nel fare parti uguali tra disuguali. E poi il problema del potere, del successo, che non sempre dipende dal “merito” di una persona sola. E l’ambivalenza del concetto di “talento”, che non sempre è esplicito e visibile.

Il pubblico presente all’incontro, che si è svolto negli spazi della biblioteca del Carrobiolo a Monza

Dietro la superficie delle parole

La risposta di Emanuela Mancino a questa varietà di stimoli prende le mosse dalle parole portate nella discussione e da una riflessione etimologica e filosofica su di esse. Da un lato la compresenza tra guadagno in senso economico (merere) e potere (kratos), dall’altro l’idea dell’utilità sottintesa dentro alla parola meritocrazia: il merito è legato alla realizzazione di qualcosa di utile e vantaggioso. Mancino individua l’idea di “accaparramento” all’origine di tutte le parole solitamente associate alla meritocrazia: “ricompensa”, “risultato”, “raggiungere”, “ottenere”.

E poi prova a mettere in discussione il concetto di “riconoscimento” del merito, inteso come qualcosa – una ricompensa, un premio – di attribuito e determinato dagli altri. Di qui la domanda provocatoria: la meritocrazia è interna o esterna? La gestisco io oppure la faccio gestire da altri? Ma anche la domanda sul senso dell’impegno: qual è l’orizzonte di felicità che vogliamo “meritare”? E l’invito a considerare il “riconoscimento” non come un punto d’arrivo, ma etimologicamente come un “riconoscere” inteso come attività di riflessione continua, un processo, non un risultato.

Emanuela Mancino introduce quindi un’altra parola, associandola al concetto di talento, introdotto da alcuni partecipanti alla discussione: la parola “responsabilità”. Nel senso etimologico di “saper soppesare” (dal latino pondus) la parte di “peso” che ci è affidata, da gestire, è la responsabilità che abbiamo nei confronti del nostro talento.

Ed è proprio dalla riflessione etimologica che sembra arrivare una chiave di lettura nuova con cui guardare al merito. È quella contenuta nel verbo da cui deriva il concetto di “meritare”, il greco meiromai, che significa “ricevere una parte” (la moira è la parte concessa a ciascuno nel mondo), dunque “essere resi partecipi di qualcosa nel corso di un processo”. Il merito non è quindi solo un obiettivo da raggiungere ma anche una parte di percorso da compiere, un percorso di cui sentirsi gratificati per il semplice fatto di partecipare di una parte di qualcosa che appartiene a tutti, un processo che permette di valorizzare anche ciò che non è utile e vantaggioso ma semplicemente bello e piacevole.  

Gerolamo Spreafico ed Emanuela Mancino

Decostruire e trasformare

A partire dalle parole e dalla loro polisemia, è andata così in scena la decostruzione di un paradigma ormai accettato dalla società come un ideale a cui tendere: l’idea cioè che il potere debba essere il premio del merito. Dietro a queste tre parole – potere, merito, premio– c’è molto di più di quello che sembra.

Soprattutto, il significato di questi concetti può essere trasformato. Non solo con dei giochi di parole, pur basati sull’etimologia e dunque sul fondo originario, ma soprattutto con un impegno e un’azione educativa che cerchi di perseguire quel cambiamento di rotta auspicato da papa Francesco. Ponendo l’accento, nella pratica educativa, non solo sul risultato da raggiungere perché utile (a ottenere un buon voto, un buon posto di lavoro, un buon guadagno) ma anche sul piacere del procedimento nel suo farsi. E ponendo come obiettivo educativo non tanto il successo, ma la cura in ciò che si fa.

Come il protagonista del film Perfect Days di Wim Wenders, in sala in questi giorni e citato in conclusione da Emanuela Mancino, solo prendendoci cura di ogni istante di ciò che facciamo, possiamo dare valore a ogni istante del nostro percorso, qualunque esso sia. E sentire di meritarcelo.

Qui il video completo dell’incontro:

 

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