di Francesca Radaelli
‘Dai servizi al prendersi cura’. Il titolo del convegno organizzato quest’anno per la Giornata del Malato dalla Caritas di Monza all’ospedale san Gerardo indica una direzione precisa, verso cui il servizio sanitario è chiamato ad evolversi.
Lo sottolinea il dottor Silvano Casazza, direttore ASST Monza MB, nei saluti iniziali: “Compito della Sanità sta diventando sempre più quello di prendersi cura a 360 gradi dei bisogni della persona, anche di quelli psicologici e umani. In questa prospettiva Regione Lombardia ha previsto l’istituzione delle Case di Comunità: strutture socio sanitarie che vedranno la presenza non solo dei medici di medicina generale ma anche di infermieri e altri professionisti della salute che possano farsi carico dei bisogni della persona in modo complessivo”.
La Giornata del Malato ricorre l’11 febbraio, anniversario dell’apparizione della Vergine a Lourdes, istituita nel 1992 da papa Giovanni Paolo II, come ha ricordato don Enrico Tagliabue, cappellano dell’ospedale S. Gerardo di Monza, invitando a raccogliersi in preghiera per il Malato ma anche per la Pace, viste le terribili notizie della guerra in Ucraina.
“Siamo abituati a considerare la salute come una difesa dalla malattia del corpo, ma la sofferenza non è solo fisica: coinvolge tutta la persona”, ha sottolineato monsignor Silvano Provasi, arciprete di Monza, introducendo il momento di preghiera iniziale. “Di fronte a chi soffre la prima risposta deve essere la presenza e la prossimità. Gesù nell’orto degli ulivi dice: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà”. Questa deve essere la nostra prospettiva davanti alla sofferenza. La malattia così può diventare non solo un momento di turbamento, ma anche di maturazione”.
Nel corso del convegno, introdotto dalla video-benedizione dell’arcivescovo Delpini ai malati e ai lavoratori della cura e moderato dal giornalista Fabrizio Annaro del Dialogo di Monza, relatori provenienti da diverse esperienze professionali differenti nell’ambito socio sanitario si sono confrontati sulle diverse dimensioni della cura.
Il medico e la cura ‘da vicino’
Il dottor Pier Giorgio Nova, medico di base in pensione, si è soffermato sull’importanza della cura a domicilio e della vicinanza del medico al paziente: “Spesso ai medici si insegna a non farsi coinvolgere emotivamente. Guardando alla mia esperienza di medico di base, ritengo invece che l’atteggiamento di chi cura debba essere permeato dalla simpatia e dalla compassione, dal comprendere la sofferenza dell’altro e dal ‘soffrire insieme’ “. Soprattutto nell’ambito della cura a domicilio. “Ricordo le numerose visite a domicilio che ho effettuato durante la mia via attività di medico come importanti momenti di relazione con il paziente e di grande gratificazione”, ha detto il dottor Nova.
Il sistema odierno prevede accessi domiciliari regolati da accordi con il Servizio Sanitario Nazionale e due tipi di assistenza domiciliare: programmata, su richiesta del medico o dei servizi sociali, o integrata, con la presenza di infermieri e fisioterapisti a domicilio.
Il dottor Nova ha ricordato che il diffondersi della pandemia di Covid ha trovato tutti impreparati: “Ai medici è stato detto di non visitare i pazienti ma gestirli telefonicamente. Si è aperta una nuova possibilità, quella delle ricette telematiche. Ma si è perso molto di più: il contatto diretto tra medico e paziente”. Ma il problema principale, con cui deve confrontarsi ogni tentativo di riforma sanitaria è quello della carenza cronica di medici di base e infermieri e dell’eccessiva burocratizzazione del lavoro del medico, che è ormai diventato sempre più complicato. “Il rischio è ancora una volta quello di perdere l’efficacia della relazione tra medico e paziente, che spesso facilita la risoluzione di problemi sanitari”.
La cura dell’anima: la ricerca di un senso
La dimensione della cura come collaborazione è stata al centro dell’intervento di Roberto Mauri, presidente della cooperativa La Meridiana. Se Platone diceva che la persona si cura con la medicina e con la parola, Mauri ha sottolineato che la medicina degli ultimi decenni ha considerato la cura soprattutto una risoluzione dei problemi del corpo. “Sono convinto che la vera scommessa sia invece affrontare i bisogni dell’anima”, ha sottolineato Mauri. “Con i servizi di Meridiana cerchiamo di prendere in carico tutti i bisogni della persona, accompagnando l’anziano e la famiglia. La cura non consiste solo nel risolvere i problemi del corpo: soprattutto per le persone anziane non può essere l’organo l’unico destinatario dell’intervento di cura. La grande sfida è riuscire a dare un senso alla vita di queste persone, un motivo per vivere, una risposta ai bisogni di senso. È una sfida difficile con gli anziani delle RSA. Lo è ancor di più con i malati di SLA”.
A questo proposito sono state ricordate le iniziative attuate da Meridiana al centro SLAncio: dalla collaborazione di Luigi Picheca con la redazione del Dialogo di Monza alla creazione di una vera e propria redazione giornalistica a SLAncio, quella della rivista Scriveresistere, ‘scritta con gli occhi’ dai malati di SLA. Fino al Premio SLAncio, un vero e proprio concorso letterario.
Allargando lo sguardo Mauri afferma però la necessità di una nuova alleanza: “Il personale delle strutture svolge un ruolo fondamentale nel raccogliere questa sfida di senso, la presenza del volontariato segna un’importante alleanza con la comunità, ma è necessaria anche un’alleanza con il sistema sanitario del territorio. Per questo credo che le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza debbano essere impiegate proprio nella direzione di una maggiore integrazione tra sanità e territorio”.
Il coraggio della cura: accogliere la persona
Fiorenzo De Molli, educatore della Casa della Carità di Don Colmegna si è soffermato sul coraggio di prendersi cura degli ultimi, indicando nella figura del Samaritano del Vangelo un modello ispiratore. Il Samaritano “vide, e non passò oltre”, si fermò, si fece carico, si prese cura. Spesso invece si distoglie lo sguardo dalla sofferenza, dal dolore innocente e dal turbamento che provoca. Si cerca di tenerlo lontano dalla propria vista. “Prendersi cura, al contrario, significa prima di tutto guardare, ascoltare, accogliere la persona, senza la pretesa di cambiarla”, ha detto De Molli. “Significa andare oltre le categorie di ‘matto’, ‘barbone’, ‘assassino’, perché queste categorie non danno il vero volto dell’altro. Non esiste il ‘barbone’ ma Giuseppe che vive per strada. Accogliere significa riuscire a contemplare il percorso della persona, rispettare la sua storia, accettare le sue scelte”. Anche, in qualche caso, quella di sottrarsi alla cura, di uscire dalla Casa e tornare a vivere per strada.
Una (complicata) cura a più mani
A partire da una ricerca effettuata sul territorio Giovanna Perucci, psicologa della Caritas Area Anziani e Famiglie, si è soffermata sulla cura dell’anziano in famiglia e sulle relazioni che si instaurano tra anziano, caregiver familiare e assistenti domiciliari (badanti).
“Nell’assistenza familiare lo spazio della casa rischia di diventare una prigione relazionale”, ha sottolineato Giovanna Perucci, evidenziando come un sentimento di dolore pervada questo intreccio di relazioni: “C’è un dolore del prendersi cura, quello del caregiver familiare che vive la cura come una serie di perdite, da quella del proprio tempo al deterioramento della relazione con l’anziano. C’è un dolore di chi è accudito, del venire meno al mito dell’autosufficienza tipico della nostra cultura. Infine c’è il dolore di chi svolge il lavoro di cura: le ‘badanti’ provenienti da altri Paesi, che hanno lasciato la propria famiglia per un progetto migratorio spesso non realizzabile. Le relazioni che instaurano con gli anziani di cui si occupano vengono continuamente interrotte dalle morti dei loro assistiti”. Il rischio è che tutto questo dolore che attraversa la cura possa sfociare nei maltrattamenti da parte di ognuna delle persone coinvolte verso le altre. “Bisogna dunque affrontarlo con responsabilità, costruendo una cultura del prendersi cura che migliori il benessere di tutte le ‘vite collegate’ nella relazione di cura”.
Esserci, con responsabilità e coraggio: questa è in estrema sintesi la grande sfida da affrontare nella dimensione della cura. E le parole finali di don Augusto Panzeri della Caritas Monza sono di ringraziamento proprio alle donne ucraine in Italia, in un momento in cui il loro Paese è martoriato dalla guerra. Un ringraziamento soprattutto alle tante donne ucraine che nel nostro paese hanno saputo essere presenti nella cura, occupandosi dei ‘nostri’ anziani.