Prima della Scala: Don Carlo di Verdi

di Marco Riboldi

Il Don Carlo di Verdi, che aprirà la stagione scaligera il 7 dicembre, è una delle opere più “lavorate” dal maestro di Busseto.

Nasce come “grand opéra” adatta al gusto del pubblico francese (era stata commissionata a Parigi dal teatro dell’Opéra) che al tempo gradiva drammi in cinque atti, con l’inserimento di ballabili, scene maestose e sontuose e nella capitale francese debutta il giorno 11 marzo del 1867.

Verdi non era però del tutto soddisfatto del suo lavoro, che più volte modificò: preparandone l’edizione per la Scala portò decisive innovazioni alla partitura, tagliò il primo atto e presentò così una edizione che venne messa in scena il 10 gennaio 1884, con un cast di livello eccellente, tra cui spiccava il tenore allora forse più celebre, FrancescoTamagno.

L’opera venne considerata da alcuni un cedimento al “wagnerismo”, cioè ad uno stile operistico che, tralasciando la tradizione del “bel canto”, si affida più alla sinfonia  e ai temi conduttori che caratterizzano personaggi e situazioni.

In termini più vicini a chi non è solito frequentare l’opera lirica: spesso si  considera l’opera come il tipo di spettacolo in cui ciò che conta davvero è l’aria cantata da uno dei protagonisti (tipo “Che gelida manina” o “Nessun dorma”, per capirci).

Questo però non è vero: l’opera è un insieme in cui la partitura orchestrale crea la trama musicale nella quale trovano senso i momenti, sicuramente emozionanti e di gran livello artistico, dell’aria del solista.

Come dice spesso il maestro Riccardo Muti, ogni nota ha un senso, una sua “scientificità”, che non può essere trascurata a vantaggio della esibizione del solista.

Nel periodo di fine ottocento, questa cura per la musica dell’orchestra si stava scoprendo in modo sempre più attento e il fatto che Wagner  fosse un esponente rilevante di tale tendenza portava parte del pubblico e dei critici a considerare il tutto come un superamento, quasi un tradimento, della tradizione italiana.

Bene quindi sottolineare che la polemica è poco sensata: la solidità della musica orchestrale concorda benissimo con la spettacolarità di alcuni “a solo”.

Il “Don Carlo” che ascolteremo il 7 dicembre sarà  quello in quattro atti composto per il teatro. Il maestro Chailly, solidissimo come studioso, come interprete e con una visione lungimirante del ruolo dell’opera lirica e del teatro milanese, porta questo dramma dopo aver affrontato il tema del potere con “Macbeth” e con “Boris Gudonov” e avvalendosi anche di una esperienza giovanile vissuta  accanto a Claudio Abbado, che del Don Carlo diede una  magistrale interpretazione nel 1968.

Il tema del potere assoluto ( e della lotta tra potere e libertà, nonché quella tra potere dello stato e potere della chiesa) si intreccia qui con la analisi psicologica, che Verdi ha via via affinato nella sua esperienza artistica e che trova materiale abbondante nel confronto tra padre e figlio (Filippo II e Don Carlo).

Sia l’una che l’altra tematica hanno sempre appassionato Verdi: i suoi personaggi sono analizzati in ogni loro sfumatura psicologica, presentati preparando una “versione musicale” della loro esperienza umana.

Per la dimensione umana del potere e delle sue contraddizioni, poi, Verdi aveva una attenzione alimentata anche dal sogno, mai realizzatosi, di portare in scena un “Re Lear”, come invece gli riuscì di fare, ad esempio, con Attila e con Macbeth.

In “Don Carlo” riesce a darci una grande rappresentazione del tema: l’atto III, con l’iniziale, tragica romanza “Ella giammai m’amò” e con il confronto altrettanto tragico con

l’Inquisitore ne è esempio grandioso.

Siamo davanti a un’opera  solenne, tragica, non  facile, anche per la sua non indifferente durata, ma seguirla con attenzione è una esperienza intensa e soddisfacente.

Si troveranno nella esecuzione scaligera voci di assoluto rilievo, che affronteranno una partitura non facile da interpretare ( soprattutto, direi, per il tenore) tra cui ci limitiamo a citare

Francesco Meli ( Don Carlo), Anna Netrebko (Elisabetta di Valois), Luca Salsi (Marchese di Posa).

Cerchiamo di riassumere, per quanto possibile, la trama, premettendo  un cenno di ambientazione: Elisabetta di Valois, già promessa sposa  di don Carlo, figlio del re Filippo II di Spagna vede la propria sorte mutare perché, rimasto vedovo, è lo stesso Filippo II a volerla sposare.

Lei, pur amando Carlo, accetta perché spera con questo matrimonio di portare la pace tra Spagna e Francia.

ATTO PRIMO

Si apre con la riflessione di alcuni monaci sulla vita e la morte di Carlo V, padre di Filippo II, mentre Carlo  pensa al suo amore ormai impossibile per Elisabetta (aria “Io la vidi e il suo sorriso”).

Rodrigo, marchese di Posa, appena tornato dalle Fiandre, apprende da Carlo questo dolore e lo incita a partire per le Fiandre (possedimento spagnolo), dove il popolo, protestante, lotta contro l’oppressione spagnola  (duetto “Dio , che nell’alma infondere”).

La principessa Eboli, incontrando Rodrigo, apprende della sofferenza di Carlo, ma, innamorata dello stesso, si illude che tale sofferenza sia per causa sua.

Rodrigo passa di nascosto un biglietto di Carlo ad Elisabetta, invitandola ad incontrare il giovane ( aria ”Carlo, ch’è sol”). Ella accetta, ma una volta sola con Carlo, gli ricorda i suoi  doveri e lo esorta a prendere atto della impossibilità di ogni relazione (duetto “ Perduto ben, mio sol tesor”).

Carlo se ne va disperato, mentre arriva Filippo, che, trovando sola Elisabetta, licenzia la dama di compagnia e miglior amica della regina la contessa di Aremberg, che ha trascurato di compiere il proprio dovere ( aria “Non pianger, mia compagna”).

Filippo incontra  Rodrigo, che sostiene coraggiosamente la causa degli abitanti delle Fiandre. Colpito dal coraggio e dalla sincerità di Rodrigo, Filippo gli chiede di sorvegliare le relazioni tra Carlo ed Elisabetta, che teme si incontrino di nascosto. Rodrigo accetta, mentre Filippo lo mette in guardia dai rischi che si corrono con la Inquisizione. ( duetto “O Signor, di Fiandra arrivo”)

ATTO SECONDO

Elisabetta, durante un ballo, chiede a Eboli di sostituirla, indossando abiti, maschera e gioielli della Regina, che è stanca e vuole ritirarsi. Eboli, così travestita, invia a Carlo un biglietto per un appuntamento a mezzanotte. Nel suo desiderio di rivedere la regina, Carlo scambia la principessa d’Eboli con Elisabetta. (Duetto: “Sei tu, bella, adorata”).

Quando l’equivoco viene chiarito, delusa ed offesa, la principessa giura di vendicarsi. Rodrigo cerca di metter pace, ma Eboli spiega che Rodrigo è ormai un confidente del re Filippo (terzetto: “Al mio furor sfuggite invano”).

Rimasti soli, Rodrigo conferma a Carlo la sua amicizia ed invita  Carlo a consegnargli documenti  politici compromettenti che lui detiene.

Mentre si prepara un autodafé ( esecuzione pubblica di dissidenti, eretici ecc. che il coro commenta con “Spuntato ecco il dì d’esultanza”) Carlo guida un gruppo di fiamminghi e chiede al padre di graziare i protestanti condannati, ma Filippo rifiuta. (“Sire, no, l’ora estrema”).  Carlo cerca allora di difendere i condannati impugnando la spada e quando il Re ordina che il figlio sia disarmato, nessuno osa farlo. Rodrigo si fa avanti e chiede a Carlo di consegnagli la spada, cosa che Carlo esegue. Il Re ricompensa Rodrigo e ordina che l’esecuzione prosegua.

ATTO TERZO

Filippo medita sul suo sfortunato matrimonio con Elisabetta e sulla vanità del potere (aria “Dormirò sol nel manto mio regale”). Giunge il Grande Inquisitore: vorrebbe che Filippo consegnasse alla Inquisizione il figlio Carlo, ma Filippo rifiuta. Giunge Elisabetta, che denuncia al re la sottrazione di un suo portagioie: Filippo glielo mostra e chiede come mai all’interno vi sia un ritratto di Carlo.

In un accesso di gelosia si scaglia contro la regina, ma l’arrivo di Eboli e Rodrigo calmano il Re. (Quartetto: “Ah! Sii maledetto  sospetto fatale”).

Rimasta sola con la regina, Eboli confessa  che, innamorata di Carlo e gelosa della regina, lei stessa ha denunciato Elisabetta al Re.  A questo punto Elisabetta le ordina di scegliere tra il convento e l’esilio. Elisabetta deplora che la propria bellezza abbia condotto Carlo alla rovina. (“O don fatale, o don crudele”)

Carlo nel frattempo è in carcere per essersi opposto al padre. Rodrigo lo visita per dirgli addio. Egli si è fatto volontariamente scoprire con i documenti compromettenti in modo da salvargli la vita: chiede all’amico di  continuare a lottare per la libertà delle Fiandre (Aria: “per me è giunto il dì supremo”). Due uomini entrano, senza che Rodrigo e Carlo li vedano: uno è vestito con l’abito della Inquisizione, l’altro è armato e spara un colpo. Rodrigo cade, ferito a morte. Carlo, al sopraggiungere del Re, si autoaccusa dell’omicidio dell’amico.

Ma una folla in rivolta irrompe, chiedendo la liberazione di don Carlo: solo l’intervento del Grande Inquisitore riesce a fermare la folla.

ATTO QUARTO

Elisabetta è sulla tomba di Carlo V, leggendario re e  padre di Filippo II. (Aria “ Tu che le vanità conoscesti del mondo”).  Lì arriva anche Carlo, in partenza per le Fiandre. Per l’ultima volta si dichiarano il reciproco, impossibile amore. ( Duetto“Ma lassù ci rivedremo”). Giungono Filippo II e il Grande Inquisitore, cui il Re consegna il figlio, perché sia punito. Appare un monaco in cui si riconoscono voce e fattezze di Carlo V, che porta con sé don Carlo.

 

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