Il dramma nel dramma. Un filo spinato, tra il palco e la platea. Quasi fosse un muro, crea due mondi all’interno di un’unica e raccolta sala. Ieri e oggi. Ciò che era e ciò che non è. Chi vuole far ricordare e chi ricorda. All’ingresso del Teatro Binario 7 di Monza c’è però un altro mondo, per il quale non c’è spazio nell’atmosfera creatasi tra gli attori e gli spettatori. È il mondo di chi nega l’esistenza di questo scomodo passato italiano. Mesto, si aggira il fantasma di ciò che è stato dimenticato, rifiutato, nascosto e cancellato.
Uno spettacolo che mette in scena un dramma reale. Il dramma della fame, del furto dei ricordi, della disperazione, dell’odiata Italia. “Un paese bagnato da tre mari, popolato da una sola lingua, da gente civile, che saluta alzando il braccio destro”. Due soli personaggi, una scenografia essenziale, un ritmo sincopato. Musiche martellanti anticipano la rappresentazione. Chiara di Marco è Zofia per questa sera, accompagnata nel suo percorso di sopravvivenza da Paolo Miloro, nelle vesti di Vlado, il padre, il comunista, lo studente, l’intellettuale, il bracciante agricolo fatto prigioniero per aver cantato in lingua slovena, nella lingua della sua terra, in un locale pubblico.
Due uomini con la paura della morte “perché non parlano la stessa lingua degli italiani”. Sono gli unici due personaggi che animano il palco, accompagnati da una bandiera issata, un albero secco e poc’altro. È questo il campo di concentramento di Gonars, l’Auschwitz italiana di cui non sappiamo nulla, realizzato dal regime fascista nell’ottobre del 1941, in previsione dell’arrivo di prigionieri di guerra russi ma destinato all’imprigionamento di civili di quella terra conquistata, occupata, smembrata e rastrellata chiamata “Provincia Italiana di Lubiana”. Uno spettacolo che mette in scena quella che è stata definita dal regime mussoliniano “bonifica etnica”.
Uno spettacolo in cui due sconosciuti s’incontrano, condividendo l’esperienza degli internati nei campi di concentramento italiani. Parole che si alternano ad urla e a spari, che ci avvisano che la gente piano piano giunge alla fine, per incomprensibile e irrazionali motivazioni. Non è vita la fame, la prigionia, l’ingiustizia. “Due maccheroni e due fagioli, in un po’ di acqua sporca” in un “campo di concentramento che non è campo di ingrassamento” secondo le parole del generale Gambara: non è vita. Una non-vita che crea umanità, dove Zofia nella sua intima disperazione trova la forza di abbracciare un albero, per rendergli il freddo meno insopportabile, dove Vlado insegna alla compagna le tabelline, perché “fuori di qua, non avrà nessun privilegio per quello che ha patito”.
Vlado viaggia, aiutando Zofia a vedere le montagne, il campanile e la bellezza oltre la freddezza di quel filo spinato e di quella morte incarnata in un secco albero. La regia e la drammaturgia di Valentina Paiano riescono a comunicare al pubblico in modo pressoché reale la concretezza di questo pezzo d’Italia dimenticato. Una rappresentazione con circostanze sceneggiate ma ricca di riscontri documentati, conferma Alessandra Kersevan, storica che avuto il coraggio di dedicare i suoi studi a questa parentesi della storia d’Italia scomoda agli stessi italiani. A Gonars, 6500 internati e 500 morti circa.
Gonars in scena per tutti gli altri campi di concentramento presenti in Italia e nei territori annessi, che non conoscono una fine nemmeno con il periodo badogliano. Cighino, Visco, Fossolan, Poggio Terzarmata, Piedimonte, Colfiorito, Pietrafitta, Ruscio, Monigo, Chiesanuova, Renicco, Cairo, Montenotte, Fertilia. Arbe, Buccari, Portorè, Fiume, Melada, Zlarino, Scoglio Calogero, Morter, Zaravecchia, Vodizza, Divulje, Prevlaka. E tanti altri, di cui spesso non si sa nulla. Nel dopoguerra è calata la censura, spiega amareggiata la Kersevan.
Una censura dettata principalmente da due ragioni, tra loro concatenate. L’Italia, infatti, fu l’unica nazione che da alleata alla Germania si schierò con gli anglo-americani. E da qui la lotta partigiana, la Resistenza, la negazione di un passato mussoliniano acclamato a gran voce, a suo tempo, a piazza Venezia, con una cancellazione totale di responsabilità. Responsabilità che andavano a cadere anche sull’esercito, che nel primo dopoguerra si accingeva ad entrare a far parte delle organizzazioni internazionali del blocco occidentale: una realtà scomoda dunque, una realtà da cancellare. E nessuno conosce: questa è la motivazione che ha spinto Valentina Paiano verso l’ideazione di questo sceneggiato. Per ricordare, nella speranza “di un’Italia bagnata da tre mari, in cui ci si saluta con una stretta di mano, fatta da tante e molte lingue, con persone intelligenti, forti e civili, dove la gente non lascia morire di fame altra gente”, dove non ci saranno più nessuna Zofia e nessun Vlado, oltre che nella memoria di tutti noi.
Camilla Mantegazza
©Fotografie di Stefania Sangalli