Quando gli invasori erano i barbari

di Roberto Dominici

L’attuale governo insediatosi il 4 marzo scorso, ha intrapreso, con una serie di slogan e di atti, una deriva sempre più estremista nell’ambito delle politiche di accoglienza e integrazione, arrivando a negare il valore della solidarietà umana e della dignità della persona. I politici oggi al governo sono immersi, come ha rilevato un noto psichiatra italiano, in una dimensione di superficialità che sta portando la propria identità a fondarsi sulla cultura del nemico con una regressione alle pulsioni istintive. Il problema è europeo, non solo nostro, e in quanto tale le soluzioni potranno arrivare solo da una condivisione sovranazionale del problema.

Esiste la diffusa percezione di una emergenza immigratoria che di fatto non c’è e che richiama alla mente l’era delle invasioni barbariche (quelle sì! vere), quel periodo storico in cui alcune popolazioni (Vandali, Eruli, Unni, Visigoti, Ostrogoti, Goti, ecc.) dalle loro terre di origine, solitamente localizzate nell’Europa settentrionale, scesero a ondate verso l’Impero romano. Quei barbari approfittarono della crisi in cui già versava l’Impero e ne accelerarono la decadenza fino alla dissoluzione: oltre alle guerre, ai saccheggi e alle distruzioni, finirono con il fondare dei veri e propri stati, spezzando l’antica unità dell’Impero e dando inizio ai regni romano-barbarici.

Oggi una forma inaccettabile di razzismo e di xenofobia attraversano il nostro paese, una sorta di paura dello straniero che ricorda l’atteggiamento assunto dai greci e dai Romani nei confronti dei barbari. Storicamente, barbaro è la parola con cui gli antichi greci indicavano gli stranieri (letteralmente i “balbuzienti”), cioè coloro che non parlavano greco, e quindi non erano di cultura greca. La stessa sillaba ripetuta che forma la parola (bar-bar) fa riferimento ad un suo altro significato affine: balbettante, a riprodurre quelli che per gli ellenofoni (i Greci pur mancando l’unità politica tra le polis, si consideravano un’unica entità culturale proprio sulla base della lingua comune) sembravano dei versi inintelligibili ed addirittura animaleschi.

Lo storico Erodoto, ad esempio, per descrivere la lingua di un popolo Etiope usò il verbo “τρίζειν”, normalmente utilizzato per riferirsi al verso del pipistrello. Da qui nacque la distinzione tra Greci e Barbari. Successivamente il termine “barbaro” finì per definire tutto quello che era da considerare anomalo e diverso, rispetto alla normalità del mondo greco-romano assunto come la pietra di paragone o lo standard.

Anche nella tradizione cristiana l’apostolo Paolo ha utilizzato il termine barbaro nella sua accezione ellenica e nel Nuovo Testamento (Lettera ai Romani 1:13) indicava i non-greci o chi semplicemente parla una lingua diversa (Prima lettera ai Corinzi 14:11).

Greci e barbari per Paolo si distinsero rispettivamente per sapienza ed insipienza, anche se Taziano, un filosofo e teologo siriano, pose in rilievo la superiorità della cultura dei barbari rispetto a quella dei greci. Sono infatti molteplici le invenzioni o le usanze apprese dai barbari in Europa: per esempio mentre i Romani cavalcavano a pelo o su di una coperta, i barbari utilizzavano già una sella e delle staffe. Mentre i Romani conservavano il vino nella terracotta e lo allungavano con acqua calda e salata, i barbari lo conservavano in botti di legno. Furono i barbari ad introdurre la birra, prodotta con il luppolo; furono i barbari ad introdurre le brache, ossia i pantaloni, al posto delle tuniche.

La diversità dell’altro deve essere vissuta e vista come un nostro completamento non come un difetto o qualcosa da combattere; solo in questo modo possiamo formare la nostra identità, una realtà che non è statica o già preformata, ma continuamente plasmata dalle persone con cui veniamo in contatto. Mi richiamo qui allo scrittore libanese Maalouf che nel suo libro “L’Identità”, afferma che “il paese che accoglie è come una pagina in via di stesura. Sarà completa attraverso il confronto costruttivo: prima gli “uni” cioè gli immigrati, i quali sono chiamati ad integrarsi nella nuova cultura, anche eventualmente mischiandola con la loro, poi “gli altri”, cioè gli autoctoni, che sono chiamati invece a rispettare le differenze perché gli stessi immigranti possano essere incentivati al rispetto delle regole del luogo (è un circolo virtuoso).

Per tale motivo il filosofo e scrittore Vilem Flusser afferma che “ci apparteniamo” la patria di origine è solo un limite fisico, mentre tramite le relazioni l’uomo scopre di appartenere agli altri e gli altri a lui. La Patria dei senza Patria è l’altro; ogni uomo e donna che nascono imparano così a diventare Umanità.

10 settembre 2018

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