Quando la rivoluzione è donna

di Francesca Radaelli

Può esistere una rivoluzione ‘dolce’, guidata dalla metà femminile dell’umanità di tutto il mondo? Una rivoluzione che lo trasformi in un mondo a misura di donna, ossia in un mondo migliore per tutti? Si è aperto più o meno con questo interrogativo l’appuntamento organizzato lo scorso lunedì 25 ottobre dalla Caritas di Monza e dalla Fondazione Monza Insieme, nell’ambito degli incontri dell’ultimo lunedì del mese.

L’incontro, moderato dalla giornalista Donatella Di Paolo, ha visto la presenza di quattro ospiti d’eccezione, quattro giornaliste impegnate sul campo nel raccontare gli angoli meno conosciuti del mondo: Barbara Schiavulli, inviata di guerra appena rientrata dall’Afghanistan, giornalista di Radio Bullets; Anna Pozzi, giornalista di Mondo Missione, esperta di emancipazione femminile in Africa; Tatjana Đorđević Simić corrispondente di Al Jazeera Balkans e della BBC News in lingua serba nonché presidente della Stampa Estera di Milano; Asmae Dachan, giornalista e scrittrice italo siriana, esperta di problematiche arabe e mediorientali.

Gli organizzatori della serata. Da sinistra: Donatella Di Paolo, don Augusto Panzeri, Fabrizio Annaro

Spazio Colore: un luogo per incontrarsi 

La serata si apre con un filmato girato a Spazio Colore, realtà monzese in cui si incontrano donne provenienti da tutto il mondo. Donne che provengono, come sottolinea Donatella Di Paolo, proprio da quei paesi lontani, da quegli angoli di mondo. Spazio Colore per loro vuole rappresentare un luogo di accoglienza e relazione, un trampolino da cui partire per trovare la propria identità nella nuova società di arrivo.

E poi la parola passa alle protagoniste della serata, le donne giornaliste esperte di Afghanistan, Siria, Africa subsahariana, Balcani. Ascoltandole, sembrano aprirsi veri e propri mondi spesso assai poco conosciuti alle nostre latitudini.

Le donne in Afghanistan: vulnerabili ma forti

Barbara Schiavulli racconta della scomparsa delle donne nell’Afghanistan riconquistato dai Talebani, di cui i media quasi non parlano più. Stanno rintanate nelle case, non si vedono più per le strade di un Paese che, oltre alla fine delle libertà, sta vivendo la crisi economica peggiore della sua storia. I volti delle donne sono stati cancellati persino dai manifesti pubblicitari, in obbedienza a una precisa strategia comunicativa dei talebani. Quella afghane, però, non sono più le donne di 20 anni fa. Sono donne che, sotto il burqa, indossano jeans e maglietta.

Donatella Di Paolo (a sinistra) e Barbara Schiavulli

“Del resto, già negli anni 90 le donne del gruppo Rawa riuscivano a diffondere le foto delle esecuzioni dei talebani nascondendole sotto i burqa”, ricorda Barbara Schiavulli. “Perchè anche se spesso le donne sono considerate deboli, in realtà non lo sono affatto. Possono essere casomai vulnerabili, ma non deboli, dal momento che il loro ruolo da sempre è piuttosto quello di farsi carico, curare e proteggere le unità familiari”.

Dalla Siria alla Serbia: l’importanza delle ‘radici’

Asmae Dachan inizia invece parlando di sé, della decisione di partire per la Siria, per raccontare la guerra. Lei, donna nata e cresciuta in un paese libero, sente il dovere di raccontare chi nel suo paese d’origine non ha più voce. Partita nel 2013, racconta il Paese che ha trovato, dopo già due anni di guerra: interi quartieri rasi al suolo, violenza di genere usata come un’arma. In questo inferno Asmae ha il coraggio di ascoltare e raccogliere le storie delle vittime della guerra, delle donne stuprate, delle persone torturate, dei bambini traumatizzati da ciò che hanno visto.

Da sinistra: Donatella Di Paolo, Asmae Dashan, Tatjana Đorđević Simić, Anna Pozzi

Le radici di Tatjana Đorđević Simić invece affondano in una stato che non c’è più, una Iugoslavia in cui prima della guerra le donne erano istruite, viaggiavano, lavoravano.

“Poi negli anni 90 a scuola ho scoperto di essere serba: la guerra inizialmente era lontana, finché nel 1999 sono iniziati i bombardamenti”, ha ricordato. “Ed è stato proprio nel periodo della guerra che ho conosciuto alcuni giornalisti stranieri e ho deciso che sarei diventata anch’io una giornalista. Una volta arrivata in Italia ho sentito in prima persona tutta la colpa collettiva che ricade sul popolo serbo. Una ‘colpa’ legata a una lettura un po’ superficiale e generalizzante del conflitto nei Balcani che si è diffusa in Europa, anche grazie ad un certo tipo di giornalismo”.

Il femminismo africano a rischio

Le donne dell’Africa subsahariana – regione di cui si occupa Anna Pozzi – appaiono in una situazione molto diversa da quelle provenienti dai paesi della ex Iugoslavia o dalla Siria, un paese, quest’ultimo, in cui prima che scoppiasse la guerra il 78% dei laureati erano donne. “Bisogna però dire che negli ultimi decenni anche in alcune regioni africane le donne hanno fatto passi da gigante”, precisa Anna Pozzi. “Senza dimenticare che in fondo l’economia di tanti paesi del continente si regge proprio sulle spalle delle donne. Basta pensare a tutti i piccoli lavori agricoli o legati all’economia informale che svolgono le donne. Spesso non sono rilevati dagli indicatori del PIL, ma sono quelli che danno da mangiare alle famiglie”.

Negli ultimi anni, spiega la giornalista, si è sviluppato una sorta di femminismo africano, legato a doppio filo al tema della difesa dell’ambiente, incarnato dalla figura d Wangari Maatai, vincitrice del premio Nobel per la pace nel 2004. “Purtroppo, però, la pandemia Covid 19 sta facendo fare dei giganteschi passi indietro in tutti questi processi. Il mancato accesso alle strutture sanitarie e all’istruzione sta provocando un regresso sotto questo punto di vista, con il ritorno, per esempio, alla pratica delle spose bambine e ai matrimoni forzati. In questo modo ogni processo di cambiamento si arresta. Alle donne è infatti affidato il compito educativo primario, sono le madri che inseriscono i figli nella società. Ed è difficile che donne adulte non istruite trasmettano ai figli i valori di una mentalità nuova”.

I partecipanti alla serata

Quale ruolo per il giornalismo?

Alla domanda sul ruolo dell’informazione mediatica sui processi di emancipazione della donna nel mondo, le risposte sono abbastanza ironiche.

La prima cosa da emancipare dovrebbe essere il giornalismo, soprattutto in Italia”, dice Barbara Schiavulli, rimarcando la pessima abitudine di fare giornalismo copiando gli altri, senza verificare le notizie, nonché la scarsissima competenza sugli esteri del giornalismo italiano. “Compito del giornalista che va sul campo è anche quello di far entrare una narrazione”. E, ricorda Barbara Schiavulli, è stato anche merito delle giornaliste donne, a lungo escluse dai campi di guerra, se oltre alle narrazioni militari si è iniziato a prestare interesse anche ai civili.

Asmae Dachan si focalizza sul sottile confine che divide il racconto volto a sensibilizzare il pubblico dalla spettacolarizzazione della morte, riferendosi alla celebre foto di Alan Kurdi, il bambino siriano morto in riva al mare: “Una foto che generò grandi discussioni nelle redazioni dei giornali sull’opportunità, o meno, che fosse pubblicata. Quell’immagine ha dato uno schiaffo al mondo, ma il problema è che degli altri bambini, quelli morti dopo Alan, nessuno ha più parlato”. Il ruolo del giornalista sul campo dev’essere anche quello di avvicinare le persone alle storie. “I siriani ci sembrano lontani anni luce, eppure la Siria è a solo 4 ore di aereo da noi”, ricorda Asmae Dachan.

“La complessità è qualcosa che non riesce mai a passare nell’informazione mainstream”, sottolinea Anna Pozzi. “Per questo si parla così poco di un tema complesso come la tratta delle donne nigeriane, che parte da lontano ma arriva sulle strade delle nostre città. E le cause profonde di questo fenomeno, in primis l’impoverimento del Sud del mondo, riguardano in fondo la responsabilità di tutti noi”.

A proposito di ‘emancipare il giornalismo’, Tatjana Đorđević Simić fa riferimento alla gestione mediatica della pandemia di Covid 19, in cui non sempre i colleghi giornalisti hanno rispettato la deontologia della professione, facendo leva troppo spesso sulla paura e l’irrazionalità. Ma sottolinea anche come un modo per emancipare il giornalismo possa essere stato aver eletto lei, una donna dei Balcani, alla guida della Stampa estera.

La forza delle donne

Alla fine della serata, da un lato “ci sentiamo un po’ meno provinciali”, come sottolinea Fabrizio Annaro, ringraziando le relatrici. Dall’altro, come rimarca don Augusto Panzeri, sentiamo di aver sperimentato un esempio di quella rivoluzione femminile potenzialmente in grado di trasformare – in meglio – tutte le società.

Forse non tanto attraverso l’emancipazione, parola che pure è stata ripetuta spesso, ma piuttosto attraverso un punto di vista nuovo sul mondo. Attraverso, per esempio, la forza della vulnerabilità, della cura, della responsabilità nei confronti delle storie e delle persone che queste donne giornaliste provano a farci conoscere attraverso le loro narrazioni e il loro lavoro.

Ecco il video per rivedere l’evento

 

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