Remo Bianco, ricercatore solitario del Novecento

di Daniela Annaro
Che cosa è un ricordo? Qualcosa che hai  o qualcosa che hai perduto per sempre? MARCEL PROUST

Un precursore, (forse troppo), un ricercatore solitario della memoria come lui stesso si è definit0.  Remo Bianco (Remo Bianchi, Milano 1922- 1988) è stato un artista non irregimentato dal sistema, un’ anima solitaria per quanto totalmente immersa nel mondo dell’arte.

Una straordinaria energia creativa poco nota al grande pubblico che ora il Museo del Novecento   rammenta attraverso la mostra REMO BIANCO. LE IMPRONTE DELLA MEMORIA (fino al  6 OTTOBRE 2019). Remo è figlio di un elettricista del Teatro alla Scala, piccolissimo perde il fratello gemello, Romolo, e prima di loro era nata Lyda, divenuta ballerina  di danza classica scomparsa nel 2013, ed è lei la fautrice della fondazione dedicata all’artista.  Dopo mille lavori,  Remo decide di frequentare i corsi serali dell’Accademia di Brera, dove viene notato da Filippo de Pisis che diviene suo maestro e  futuro mentore. De Pisis lo mette a contatto con tutti gli artisti del Novecento, da Carrà a Sironi. 

Ma se de Pisis vive la quotidianità con un tratto melanconico e nervoso, Bianco  la interpreta con il bisogno inesauribile di preservarla e raccoglierla perché, come avrebbe detto Cesare Pavese, “non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”. Ed ecco che Remo, dopo una breve interruzione dovuta alla Seconda Guerra Mondiale, torna a Milano, a Brera, per realizzare il suo primo ciclo  pittorico-scultoreo. Sono le Impronte: calchi in gesso, cartone pressato o gomma ricavate da segni lasciati da un’automobile sull’asfalto, o da tracce di piccoli oggetti, giocattoli, scampoli di stoffa, “cose umili che di solito vanno perdute”.

R. Bianco - Impronta giocattoli 1956

Nella Milano del dopoguerra lavorano artisti come Lucio Fontana, padre dello Spazialismo, Piero Manzoni, Enrico Castellani, galleristi come Carlo e Renato Cardazzo della Galleria del Naviglio. Remo, con una borsa di studio è stato in America dove ha conosciuto Jackson Pollock; di lì a poco verrà a contatto con il mentore del Nouveau  Réalisme, Pierre Restany. Remo Bianco si trova sempre al centro dei contesti più prolifici e stimolanti degli anni Cinquanta e Sessanta, ma per un bisogno irrefrenabile di indipendenza e libertà si è quasi sempre ritrovato a “margine”, senza quella necessaria dose di sistematicità che anche quell’ambiente richiede.

Ecco perché risulta molto gradita questa mostra che Milano, sua città natale , finalmente gli dedica. Un doveroso omaggio alla sua vivacità artistica come dimostrano le settanta e più opere al Museo del Novecento. Ci sono i suoi diversi e divertenti cicli come i Sacchettini – Testimonianza, raccolte di conchiglie, monete, frammenti appesi in una disposizione regolare come se fosse un quadro tradizionale.


Poi le opere tridimensionali i 3D, in materiale  plastico trasparente o in vetro dove l’immagine si forma con figure poste in successione. E, ancora i Collages, i Tableaux Dorés, le Sculture neve, e, infine, i Quadri parlanti.Esposti per la prima volta nel 1974 sono tele  sul cui retro hanno  un amplificatore. Il più noto è “Scusi signore…” dove Bianco si autoritrae con il dito puntato, foto che compariva su tutti i tram milanesi per coinvolgere l’intera città. 

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