di Alfredo Somoza
Sono passati cent’anni dallo scoppio della “Grande Guerra”, che cominciò come uno dei tanti conflitti regionali europei ma presto si trasformò nel primo vero conflitto mondiale, inaugurando il secolo delle guerre su scala industriale. Ciò accadde perché, per la prima volta, la posta in gioco superava i confini del Vecchio Continente: il mondo era già interconnesso. Si scontravano Paesi che vivevano condizioni molto diverse, tra potenze coloniali in declino, imperi in via di sparizione e potenze emergenti che ambivano a occupare nuovi spazi geografici e commerciali. Regno Unito e Francia non riuscivano a fronteggiare gli oneri umani ed economici derivanti dalla gestione dei possedimenti coloniali, mentre Stati Uniti e Giappone ambivano a essere ammessi nella “stanza dei bottoni”.
Quel grande conflitto geopolitico, come tutti i grandi drammi della nostra storia, si svolse in un contesto che presentava notevoli somiglianze con quello odierno. In primo luogo il vuoto di leadership mondiale: oggi, dopo la fine della Guerra Fredda, la scomparsa dell’Unione Sovietica e il ridimensionamento economico degli USA, non ci sono “imperi” in grado di reggere e garantire l’ordine globale. Stesso quadro si presentava nel 1914, con il declino inarrestabile dell’impero britannico e lo sgretolamento dell’impero Austro-Ungarico e di quello Ottomano, mentre anche la Françe-afrique cominciava a scricchiolare. I nuovi “barbari” di inizio ’900 erano gli Stati Uniti e il Giappone, destinati dopo pochi anni a stabilire nella cruenta Guerra del Pacifico chi dovesse essere la potenza di riferimento in Asia.
L’Europa dei grandi imperi, che però non riuscivano a diventare nazioni, aveva ormai le ore contate: la guerra fratricida si limitò ad accelerare la sua perdita di influenza, fino al suicidio collettivo della Seconda guerra mondiale. Oggi il vacillare dell’Unione Europea, unico argine contro il declino del Vecchio Continente e la sua perdita di peso economico e strategico sullo scacchiere mondiale, ricorda quei momenti precedenti al grande conflitto. La differenza sostanziale è che in Europa, a differenza di un secolo fa, non ci sono imperi estesi su altri tre continenti.
Eppure il nostro continente mantiene un punto di forza, continua a disporre di una risorsa ambita da altre potenze: la sua residua posizione di rendita sull’innovazione, sulla finanza, sull’industria di qualità e sulla cultura. L’Europa dei primi del ’900 aveva costruito una situazione di privilegio sfruttando soprattutto i popoli lontani; l’Europa del XXI secolo vive una situazione di (relativo) privilegio perché ha saputo tutelare cultura e storia produttiva creando contemporaneamente coesione sociale, un bene prezioso e raro a livello mondiale. Insomma, l’Europa di un secolo fa era ingiusta ma potente, quella di oggi è più giusta e meno potente. Oggi ingiustizia e potenza convivono altrove, in Russia, in Cina, addirittura negli Stati Uniti.
Nonostante queste similitudini, appare piuttosto improbabile che nei prossimi anni possa ripetersi un conflitto mondiale. Le guerre locali o regionali attualmente in corso nascono “soltanto” dal tentativo di accaparramento di materie prime strategiche, e in futuro gli scontri militari potrebbero riguardare il controllo delle risorse idriche o il nodo dell’informazione. Il mondo globalizzato dei nostri giorni, a differenza di quello di un secolo fa, non è preparato e non ha bisogno di un grande conflitto per dirimere chi comanda. Ci ha già pensato l’economia senza frontiere a chiarire i nuovi rapporti di forza, a fare emergere alcuni Stati e nazioni e ad affondarne altri. Il biglietto di ingresso al salotto delle potenze globali non si distribuisce più alle sfilate militari, ma negli ipermercati.
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