Riflettendo sul petrolio.. Degli altri.

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di Alfredo Somoza

In Messico quello della privatizzazione parziale del petrolio, la principale risorsa estrattiva del Paese, è un tema ricorrente. Almeno dal 2000, quando le destre del PAN sono arrivate al governo per la prima volta nella loro storia. Eppure si dovrebbe trattare di un tema per così dire “tabù”, visto che la gestione pubblica del petrolio, di cui il Paese è tra i maggiori produttori mondiali, è sancita da un apposito articolo della Costituzione.

La nazionalizzazione del petrolio messicano fu una vera epopea della prima metà del ’900, e forse l’ultimo ruggito di quella Rivoluzione Messicana che aprì il ciclo delle grandi lotte popolari. Fu il governo nazionalista e socialista del generale Lázaro Cárdenas nel 1938 a espropriare le 17 imprese straniere che si spartivano l’oro nero degli aztechi. Una mossa coraggiosa che costò al Messico la rottura delle relazioni diplomatiche con il Regno Unito e l’embargo economico da parte degli USA e dei Paesi Bassi. Questa nazionalizzazione è rimasta nella storia latinoamericana come uno dei rari espropri riusciti ai danni delle multinazionali europee e statunitensi.

Il 54% del petrolio messicano si esporta come greggio. Paradossalmente però il Paese deve importare prodotti raffinati (benzine, gasolio), perché la capacità installata del colosso statale Pemex non è sufficiente a rifornire il mercato interno. È questa fragilità industriale la principale arma in mano a chi vorrebbe aprire ai privati. Secondo i fautori del libero mercato, infatti, l’annosa questione dei mancati investimenti dell’impresa di Stato per ammodernare e potenziare la propria capacità di raffinazione e lavorazione giustificherebbe l’ingresso dei privati.

Molto simile è il dibattito in corso in Venezuela, Paese nel quale, come in Messico, l’obiettivo principale del monopolio pubblico è garantire occupazione, in buona parte clientelare, e sostenere le finanze pubbliche, ma in una cornice di frequenti e clamorosi casi di corruzione.

I sostenitori dell’impresa pubblica pongono invece l’accento sull’importanza strategica del petrolio e sui benefici che il Paese e i cittadini perderebbero se venisse meno il monopolio pubblico. Una disputa ormai “classica”, tra finti modernizzatori che in realtà guardano al profitto dei privati e finti difensori dei beni pubblici, in realtà corrotti gestori del consenso politico clientelare. Una maledizione in America Latina come altrove, perché impedisce di affrontare il tema con criteri di pragmatismo, garantendo l’interesse pubblico e preoccupandosi della capacità industriale e della sostenibilità delle imprese.

Il senato messicano ha appena votato l’apertura ai privati grazie a una maggioranza bipartisan formata dal PRI, il partito-Stato risorto dalle sue ceneri e ora al governo, e l’opposizione di destra del PAN. Una maggioranza inedita, ma necessaria per modificare la Costituzione e rompere il monopolio pubblico. La nuova legge è stata salutata con favore dalle compagnie multinazionali statunitensi ed europee già operanti nella regione.

Il settore petrolifero messicano è il caposaldo di un Paese fortemente nazionalista e interventista in materia economica, che però negli anni ’80 del secolo scorso ha cominciato ad aprirsi in modo disordinato al mercato: soprattutto quando, nel 1994, ha aderito all’accordo Nafta con USA e Canada impegnandosi   che fu di Villa e Zapata.

Alfredo Somoza

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