di Francesca Radaelli
“Che i venti non ci portino a mare”. Suona così, in italiano, il titolo dell’impressionante opera creata ad Auckland, in Nuova Zelanda, dall’artista Brydee Rood: una manica a vento lunga quanto un campo da calcio tutta fatta di buste di plastica. L’installazione, che fa parte del progetto #BeatPlasticPollution, lanciato dall’Onu per sensibilizzare sull’inquinamento degli oceani, è stata realizzata utilizzando una quantità di plastica che non è che una parte infinitesimale di quella attualmente presente sulla Terra. E soprattutto nel mare.
Oggi 12 settembre ricorre la Giornata mondiale senza sacchetti di plastica, istituita nel 2009 dalla Marine Conservation Society, associazione britannica no profit dedicata alla conservazione dell’ecosistema marino.
Certo siamo ben lontani dall’eliminare i sacchetti di plastica dalla nostra vita quotidiana di consumatori, anche se occorre dire che l’estate che ormai volge al termine ha visto numerose iniziative di sensibilizzazione sul tema dell’impatto ambientale degli imballaggi che utilizziamo nella vita di tutti i giorni.
Quella di Legambiente, per esempio, che all’inizio della stagione balneare ha dato il via a “Pelagos plastic free“, una campagna realizzata in partnership con l’associazione francese Expédition e lanciata allo scopo di difendere dalla plastica il santuario dei mammiferi marini, istituito in una zona di 87.500 km² del mar Tirreno, compresa tra l’Italia, il Principato di Monaco e la Francia: obiettivo con cui è partita l’iniziativa è stato quello di quantificare la plastica in mare e capire quali sono i microorganismi, batteri, virus e alghe unicellulari che colonizzano la Plastisfera. La stessa associazione ambientalista è stata inoltre impegnata in attività di sensibilizzazione sulle spiagge italiane all’interno della campagna “Usa e Getta? No grazie!”, per prevenire l’abbandono di imballaggi monouso in plastica come bottiglie, stoviglie, cannucce e buste da parte dei turisti, mentre Greenpeace ha mobilitato i vacanzieri persino sui social per segnalare le spiagge inquinate (ne abbiamo parlato qui).
Ma forse tutto ciò non basta. Forse non sono sufficienti le campagne di sensibilizzazione, nemmeno se raggiungono il loro obiettivo: rendere le persone più consapevoli rispetto al problema dell’inquinamento dei mari. E se, guardando l’opera di Brydee Rood, viene soprattutto da augurarsi che non confluisca nel mare l’enorme quantità di plastica prodotta sul nostro pianeta – di qui al 2025 i volumi sono destinati a raddoppiare – allora forse proprio la produzione è la chiave del problema.
Questo è anche quanto emerge da un recente report di Greenpeace, intitolato, in modo eloquente “Il riciclo non basta” e realizzato in collaborazione con la Scuola agraria del parco di Monza. A lungo invocato come la soluzione del problema dal mondo della politica e dell’economia, il riciclo secondo i dati che emergono dal rapporto non salverà l’ecosistema del mare se la produzione di plastica continuerà a crescere ai vertiginosi ritmi attuali.
In Italia, infatti, secondo il consorzio Corepla, di tutti gli imballaggi in plastica immessi al consumo, solo poco più di 4 su 10 vengono effettivamente riciclati, 4 invece vengono bruciati negli inceneritori e i restanti immessi in discarica o dispersi nell’ambiente. Nonostante il tasso riciclo degli imballaggi in plastica sia cresciuto negli ultimi anni, passando dal 38% del 2014 al 43% del 2017, questo incremento non è riuscito a bilanciare l’aumento del consumo di plastica monouso. Infatti, le tonnellate di imballaggi non riciclati sono rimaste sostanzialmente invariate dal 2014 (1,292 Milioni di Tonnellate) al 2017 (1,284 Milioni di Tonnellate) vanificando di fatto gli sforzi e gli investimenti per migliorare e rendere più efficiente il sistema del riciclo nel nostro Paese.
E c’è un altro problema: recentemente la Cina ha posto delle forti limitazioni al’importazione di rifiuti in plastica: forse non tutti lo sanno, ma sono oltre 40 mila le tonnellate di plastica che l’Italia ha esportato in Cina nel corso del 2017 per avviarle al riciclo.
Per quanto riguarda invece la produzione di plastica, il nostro Paese si colloca al secondo posto in Europa, dietro alla Germania: si può stimare che ogni anno siano immesse al consumo tra i 6 e i 7 milioni di tonnellate. Come avviene sia in Europa che a livello mondiale, anche in Italia circa il 40% di tutta la plastica prodotta viene impiegata per la produzione di imballaggi, con un tempo di utilizzo che può variare dai pochi secondi di una cannuccia ai pochi minuti della bottiglia di una bibita. Il tempo di smaltimento invece viaggia su ben altri ordini di grandezza!
L’appello di Greenpeace è rivolto dunque soprattutto al mondo dell’industria: secondo l’associazione l’unica possibilità per intervenire in modo risolutivo è ridurre drasticamente e con urgenza il ricorso alla plastica monouso, riprogettando gli imballaggi perché siano durevoli e riusabili, prima ancora che riciclabili.
“È necessario che i grandi marchi si assumano le proprie responsabilità partendo proprio dalla riduzione dei quantitativi di plastica monouso immessi sul mercato”, ha sottolineato Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace Italia. Per tanti prodotti infatti, ancora oggi, la possibilità di scegliere imballaggi alternativi non esiste, nemmeno per i consumatori disposti a farlo. Oggi, in un mondo governato dal ‘libero’ mercato, i consumatori ‘responsabili’ possono agire per il meglio nel loro piccolo, evitando per esempio di utilizzare stoviglie in plastica usa e getta, ma difficilmente hanno il potere di invertire tendenze distruttive su larga scala.
La palla è in mano alle grandi aziende, che a oggi fanno profitti utilizzando un materiale difficilmente riciclabile: a loro tocca assumersi la responsabilità di innescare un nuovo sistema produttivo, investendo sulla ricerca e l’adozione di nuovi materiali e polimeri, che siano naturali o frutto della ricerca tecnologica. Le alternative agli imballaggi monouso esistono e, dopotutto, ci sono sempre state. La scelta di adottarle e promuoverle, ora, è nelle mani dei produttori.