di Fabrizio Annaro
Eletto il 4 settembre del 1970, Allende si insedia come presidente del Cile il 3 novembre dello stesso anno. Vince grazie all’appoggio della coalizione di Unidad Popular cui fanno parte socialisti, comunisti, radicali e cattolici di sinistra. Durante i tre anni di presidenza, Allende subisce la fortissima opposizione interna guidata della Democrazia Cristiana e dall’estero quella degli americani che negheranno prestiti ed aiuti, dinieghi che contribuiranno a far precipitare il Cile in una profonda crisi economica.
Allende era medico, fondatore del partito socialista e dal 1937 senatore. Di famiglia agiata, Allende era convinto che il Cile avesse bisogno di riforme radicali in modo da ridurre, se non abolire, i privilegi dei ceti abbienti.
Malgrado la riforma agraria, la nazionalizzazioni delle miniere di rame e di altre industrie strategiche, le condizioni economiche della nazione non cambiarono di molto, con la conseguenza che nel triennio di Unidad Popular si scateneranno scioperi e manifestazioni anti governative.
In politica estera Allende tentò l’alleanza con alcuni paesi del blocco Socialista: prima Cuba, poi l’Unione Sovietica ma con pochi effetti, anzi le mosse di Allende acuirono il timore, sia interno sia esterno, che Unidad Popular volesse condurre il Cile verso una dittatura comunista.
La situazione divenne incandescente quando nell’estate del 1973 irruppe il terrorismo provocato dalle fazioni estreme, che scatenarono una protesta senza precedenti. Le difficoltà aumentarono a seguito di un’ondata di scioperi senza precedenti.
Il 22 agosto 1973 la Camera votò più volte contro il governo. A questo punto Allende propose un referendum per conoscere la volontà del popolo. Ma l’11 settembre un’improvvisa rivolta dai militari, comandati dal generale Augusto Pinochet, provocò il bombardamento e l’assalto al palazzo presidenziale, il Palazzo della Moneda, dove Allende, si rifiutò di arrendersi, e morì suicida nel suo studio.
“La via cilena al socialismo” proposta da Unidad Popular fu profondamente criticata da tutto il movimento filocomunista.
Dal blocco comunista molti dirigenti di primo piano si convinsero che solo con la rivoluzione e con la violenza si poteva instaurare un regime comunista, mentre dai partiti comunisti dell’occidente, in particolare da quello italiano, maturò l’idea che un governo di sole forze di sinistra non avrebbe potuto resistere, come l’esperienza di Allende ha dimostrato, all’opposizione sia interna sia esterna.
Fu così che Berlinguer, nell’autunno del 1973, allora segretario del Pci, dalle pagine di Rinascita scrisse quello storico articolo nel quale formulò l’ipotesi del compromesso storico: un alleanza formata da comunisti, socialisti e cattolici con l’obiettivo di salire al governo e riformare profondamente l’Italia e il suo sistema economico.
Da allora e sino alla fine degli anni ’70, i comunisti italiani cercarono a tutti costi l’alleanza con la DC e nello stesso tempo desiderarono tranquillizzare gli americani con il riconoscimento della Nato e del patto atlantico.
Ma la morte di Moro, il fallimento dei governi di unità nazionale, l’ascesa dei socialisti di Craxi, costrinsero Berlinguer a rivedere la strategia del compromesso storico. La scelta comportò l’isolamento e ben presto una lenta fine culminata con lo scioglimento del partito immediatamente dopo la caduta del muro di Berlino.