Sandro Mazzola: il campione con i tacchetti di cuoio


Alessandro Mazzola, meglio conosciuto come Sandro, campione dell’Inter e della nazionale. Settant’anni, ancora un fisico atletico, “ho  solo  un po’ di pancetta”. Ci riceve a casa sua. Cordiale, simpatico, gioviale, a piccole dosi ci “accompagna nella sua vita” nei ricordi di un passato ricco di umanità, specchio di un’Italia che non c’è più e non si trova neanche nelle pagine di Storia.

Se una giovane promessa del calcio ti chiedesse qualche consiglio?  “Amare il pallone, amare il calcio, giocare sempre, ovunque.  Vedi, il calcio è gioco di squadra, è dialogo con i tuoi compagni, è sacrificio per sé e per gli altri, ma soprattutto per gli altri. Mi allenava Giuseppe Meazza; un giorno  un mio compagno sbaglia e, anziché passarmela, tira in porta e la palla esce. Mi arrabbio con il mio compagno, Meazza mi riprende e in dialetto mi fa capire che la prossima partita starò in panchina: con i compagni si gioca,  si sbaglia  e ci si aiuta,  non si litiga! Una lezione di vita.  


Oggi i ragazzi hanno il Kit, le maglie, i pantaloncini, le scarpe. Quando da ragazzo giocavo nell’Inter  era tutto “riciclato”: dalle maglie alle scarpe. La mia prima maglia nerazzurra mi arrivava alle ginocchia, era di lana, piena di rattoppi. Vuoi sapere un segreto? La mia fortuna sono state le scarpe: avevo sempre un dolore ai polpacci poi, un giorno, trovo un paio di scarpe usate con tacchetti di cuoio. Che pacchia! Giocavo e mi divertivo, mai un dolore. La prima volta che ho giocato  in nazionale c’era Edmondo Fabbri. Dovevamo incontrare il Brasile, quando passò per la verifica scarpe e mi impose quelle con tacchetti di ferro. Sbagliai un rigore. Da quella volta, al mister di turno, facevo vedere le scarpe con i tacchetti di ferro. Poi, di nascosto, indossavo le mie, quelle con i tacchetti di cuoio”
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Così sei diventato un campione grazie alle scarpe riciclate?Si grazie alle scarpe riciclate!”

Il gol più bello? Ce ne sono tanti: la doppietta contro il Real a Vienna, ma soprattutto quello a Berna con la nazionale. Quando andavamo all’estero i tifosi avversari ci fischiavano, mentre gli immigrati italiani vivevano l’incontro con gioia ma soprattutto la nostra eventuale vittoria era simbolo di riscatto. A Berna quel giorno passammo in svantaggio. Potete immaginare i nostri tifosi. Poi ad una manciata di secondi dalla fine arriva una palla,  si sviluppa un’azione magistrale, faccio due o tre palleggi, entro in area tiro e segno. I nostri esplodono in una gioia indimenticabile”.

Il calcio non è solo calcio, è cultura, è costume, è inseparabile presenza nella vita quotidiana. Pensate che gli indici delle borse nazionali risentono dei risultati sportivi, salgono e scendono in relazione a vittorie e sconfitte.

Dicevi di Vienna della finale con il Real … “Sì, era il 1964 e il mio mito era Di Stefano. Prima di “salire” in campo dal sottopasso del Prater, (lo stadio di Vienna ndr), le squadre erano in fila ed io fissavo con ammirazione Di Stefano.  Suarez mi prende e dice: “Ehi,  sei venuto per giocare la finale o per  vedere come è fatto Di Stefano? Vincemmo 3 a 1, con una mia doppietta, meraviglioso! Alla fine della partita cerco Di Stefano per chiedergli la maglia,  mi viene incontro Puskas, il mitico campione ungherese: dammi la maglia, tu sarai un campione, mi disse. Conservo ancora oggi quella di Puskas, ma ahimè mi manca  quella di Di Stefano. Facchetti, Picchi, Burnich, Corso, Suarez … Amici e persone fantastiche. Ho trascorso con loro molti  i momenti  più belli della mia vita. Helenio Herrera? Allenatore metodico persino maniacale, soprattutto per la disciplina e le ferree regole durante i ritiri.  Un giorno io, Burnich e Picchi “scappiamo dal ritiro”:  erano le 7 del mattino: destinazione la chiesa ad un passo dal ritiro dove volevamo assistere alla messa. Ad un certo punto, dietro ad una colonna della chiesa, compare il mago.  Mi difendo affermando che senza la messa  gioco male e concordano Picchi, Burnich e Facchetti. Il mago si convince: la fuga dai ritiri non è per festini e per trovare ragazze disponibili. Il mago capisce e da allora la messa è celebrata  ogni sabato prima della partita. Ricordi quando eravamo a 7 punti dal Milan? Ebbene, la squadra aveva vissuto un risveglio spirituale, partecipavamo alla messa, ci si confessava, eravamo coinvolti in opere di solidarietà … vincemmo il campionato all’ultima giornata”. C’entra qualcosa? Chissà … forse.

La persona che più ti ha colpito?Padre Pio. Sì, Padre Pio. Ti spiego. Quando è mancato mio papà Valentino ci siamo trasferiti a Cassano d’Adda a vivere con la nonna e la bisnonna, che è morta a 92 anni e per tutta la sua vita ha mangiato pochissimo e bevuto mezzo bicchiere di rosso a pranzo e a cena. Vivevamo con poco, mia nonna lavava i panni nell’Adda perché l’acqua dell’Adda era impareggiabile per il bucato. Si recava al fiume con la carriola piena di panni sporchi. Mia nonna faceva “l’urlera” (il telaio della scarpa) e la domenica, siccome sapeva scrivere, andava alle carceri di Cassano per scrivere e leggere le lettere dei detenuti che erano analfabeti”. Si, ma Padre Pio?Tutta la mia famiglia adorava Padre Pio, soprattutto la nonna. Quando andammo a Foggia, per Inter Foggia, tutta la squadra si recò a san Giovanni Rotondo. Portammo una busta a Padre Pio, lui parlava solo in dialetto e c’era un frate che faceva da interprete. Cosa vi disse? Che la busta non serviva per far vincere l’Inter!”  Tutto qui? “La mattina  dopo io e Picchi ci svegliammo alle 5 e, di nascosto, andammo al convento per confessarci. Mi impressionò la quantità di persone che, in processione, si recavano da Padre Pio per un consiglio, una benedizione, un aiuto, un’assoluzione. Entrammo nella cella del frate … Volevo togliermi un peso che mi tormentava: mi pareva di aver commesso un sacrilegio perché, quando pregavo, chiedevo al Signore di farmi diventare un calciatore non per i meriti di mio papà (come molti malignamente affermavano) ma per le mie capacità, piuttosto fammi morire, dicevo al Signore. E Padre Pio?  Mi guarda e mi dice con un gesto inequivocabile: ma va, … va…, 5 pater, ave e gloria. Tornammo in stanza fingendo di dormire. Il mago aveva abboccato. Vincemmo 3 a 0 e segnai una tripletta”.  

Tua madre era contenta del calcio?Sì, ad un patto, che andassi bene a scuola altrimenti niente pallone. Prima la scuola. Un giorno il mago mi convoca con la prima squadra. Andai da Italo Allodi, allora dirigente dell’Inter, frequentavo la quinta ragioneria e gli allenamenti della prima squadra erano di mattina. Avrei dovuto saltare la scuola, la mamma si sarebbe opposta. Allodi chiama il Preside che mi invitava  a ritirarmi per fare gli esami da privatista. Trascorsi un anno infernale, ma imparai lo spirito di sacrificio: la mattina con il mago e la prima squadra, il pomeriggio sino a sera sui libri da un professore all’altro, di corsa per tutta la città di Milano”.

E Mazzarri?

Un ottimo allenatore vedrete che con lui l’Inter andrà in alto.

Nostalgia dei campi? (Un sospiro). Mazzola ci pensa. “Guarda, ho un sogno ricorrente: durante la notte sogno d’essere in panchina, l’allenatore è Mondonico. Scalpito per entrare, mi scaldo a bordo campo, ma niente da fare, Mondonico dice no, non giochi”.

L’intervista è finita, io e Stefania, l’autrice di queste belle fotografie, ci avviamo verso la porta. Ma prima di salutarci ritorna il ricordo di Messico 70, la staffetta, la finale persa 4 a 1 con il Brasile.

“Il Brasile aveva cinque numeri 10 e giocavano tutti. Noi, gli azzurri, ne avevano due, io  e Rivera, ma giocava uno solo”.

E il goal di Pelé, quello passato alla storia? “Su Pelè doveva andare Burnich non Bertini. Quando Valcareggi ha ordinato il cambio di marcatura, Rivelino aveva messo in area la palla d’oro per Pelè, Burnich non ha fatto in tempo a prenderlo ma, se fosse stato vicino alla perla nera, Tarci non l’avrebbe fatto segnare. Parola di Mazzola”.

Grazie Alessandro!

Intervista di Fabrizio Annaro. Fotografie di Stefania Sangalli

 

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