Sarà l’etica a salvare il giornalismo?

di Francesca Radaelli

Sul tavolo una radiolina un po’ démodé, una macchina da scrivere, un registratore portatile, una macchina fotografica, una videocamera. Insomma gli ‘attrezzi del mestiere’ tradizionalmente associati alla professione del giornalista. Oggetti che oggi, per raccontare ciò che accade nel mondo, sembrerebbero non essere più necessari. Rimpiazzati da un unico dispositivo: lo smartphone.

Proprio dagli strumenti del giornalista ha preso le mosse il convegno organizzato lo scorso 29 novembre dalla Chiesa del Decanato di Monza presso l’Auditorium Sacro Cuore di Triante, che ha visto tre giornalisti di diversa provenienza – Laurenzo Ticca, Claudio Colombo e padre Giuseppe Riggio – confrontarsi, sotto la guida del moderatore Fabrizio Annaro, su un tema attuale e problematico: ‘L’etica del giornalismo al tempo dei social network’.

Da sinistra: Fabrizio Annaro con gli ‘attrezzi del mestiere’ e Laurenzo Ticca

Il punto di partenza ormai da qualche anno è sempre lo stesso: nel mondo contemporaneo vengono messi in discussione pesantemente non solo il ruolo del giornalista, ma la sua stessa utilità. Oggi la mediazione del giornalista appare non più necessaria, attraverso rete circola una mole di notizie che chiunque può produrre e che finiscono per disorientare i giornalisti stessi. A questo proposito Laurenzo Ticca, ricordando gli inizi della propria carriera di giornalista televisivo, ha voluto sottolineare il tema della responsabilità delle notizie. “Un tempo l’inviato, che riferiva ciò che vedeva sul campo, era direttamente responsabile di ciò che scriveva o diceva. Oggi invece circola in rete una quantità grandissima di notizie false e diventa difficile persino per il giornalista comprendere a fondo anche l’evento stesso che sta raccontando”.

Del resto, i nuovi supporti tecnologici e il ruolo di Internet già da tempo hanno messo in crisi il giornalismo della carta stampata. “Siamo in una fase di transizione”, sottolinea Claudio Colombo, direttore del Cittadino, tradizionale giornale ‘di carta’. “La professione va ripensata: oggi ci troviamo a parlare non più ai lettori, ma agli utenti. E per un giornale è diventato indispensabile aprire un sito web e dei profili sui social”.

Da sinistra: Fabrizio Annaro, Laurenzo Ticca, Padre Giuseppe Riggio, Claudio Colombo

In un tempo in cui il web ha reso più facile l’accesso alle fonti e alla comunicazione, chiunque può prendere la parola per raccontare qualcosa”, rimarca padre Giuseppe Riggio, capo redattore del mensile ‘Aggiornamenti sociali’. “Il risultato è una grande confusione, un grande rumore di fondo, in cui anche il modo in cui si raccontano certi eventi presuppone un giudizio su di essi”.

Su quest’ultimo fenomeno gli esempi sono innumerevoli e qualcuno viene portato dai relatori stessi. Come quello della foto dell’assalto alla macchina dei carabinieri da parte di presunti migranti: viene tirata fuori ogni volta che si dà la notizia di un crimine commesso da un cittadino straniero, anche se in realtà è una foto di scena tratta da un film.

Da sinistra: Padre Giuseppe Riggio e Claudio Colombo

Trovare una strada per ‘salvare’ il giornalismo è difficile, concordano i relatori: “Tutto si basa sui rapporti di forza e oggi non esiste un soggetto tanto forte da imporre ai colossi della comunicazione come Google e Facebook di cambiare i propri modelli di comunicazione”.  

Qualcuno prova a tracciare un percorso, a indicare una via, che per ‘salvare’ la professione del giornalista passa proprio per il recupero della dimensione ‘etica’ che oggi sembra perduta.

Secondo Claudio Colombo occorre puntare sull’affidabilità del giornalista o della testata: “E’ questo il criterio che divide il buon giornalismo dal cattivo giornalismo: il controllo della notizia. Sarà questo a salvare il nostro mestiere”, afferma il direttore del Cittadino.

Anche Padre Giuseppe sottolinea da un lato l’importanza della competenza del giornalista, ma dall’altro anche quella di educare i lettori a riconoscere questa competenza, a valutare la notizia. Racconta dei laboratori fatti con i più giovani sulle fake news: “Il lavoro fatto con i ragazzi dimostra che distinguere le notizie false da quelle vere non è difficile, occorre però avere il tempo di soffermarsi, e di porsi le giuste domande ”.

Proprio perché oggi la comunicazione passa attraverso i famigerati ‘like’, occorre che sia il lettore a valutare bene prima di mettere o meno un ‘mi piace’ a una notizia, sostengono Colombo e padre Giuseppe.

Insomma, saranno i lettori a salvare il giornalismo?

Oppure forse, dopo il recente appello dell’inventore di Internet Tim Berners Lee, rilanciato da Fabrizio Annaro, sarà il mondo di Internet che, trasformandosi, potrà diventare strumento di diffusione del bene?

Da sinistra: Laurenzo Ticca e Padre Giuseppe Riggio

Intanto, per chi vuole fare giornalismo, una possibilità c’è. La indica padre Giuseppe, ricordando un’affermazione contenuta nell’Enciclica ‘Laudato Si’ di papa Francesco.  “Di fronte ai meccanismi in atto si constata l’ostinata resistenza di ciò che è autenticamente umano”. Insomma: è possibile trovare un’alternativa ai modelli di comunicazione dominante, è possibile ritagliare dentro di essi uno spazio per ciò che è umano, anche quando si tiene uno smartphone in mano e si lavora in rete e sui social network.

Ed è possibile farlo vivere anche all’interno delle reti social, creando comunità virtuali che siano anche reali, e che non siano fondate sull’odio ma sulla diffusione della verità. A questo sono chiamati oggi i cristiani con lo smartphone, dice padre Giuseppe, così come tutti gli uomini di buona volontà: a dare un valore, e un senso, a ogni singolo ‘mi piace’.

 

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