di Virginia Villa
Nella serata di lunedì 4 aprile, dopo tredici anni di indagini, processi, battaglie e anche depistaggi, la Cassazione ha confermato le condanne di 12 anni di reclusione per Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri ritenuti responsabili della morte di Stefano Cucchi, dichiarando che si trattò di omicidio preterintenzionale.
L’arresto e la morte
Il 15 ottobre 2009, Stefano Cucchi viene fermato da cinque carabinieri dopo essere stato visto consegnare ad un ragazzo alcune confezioni trasparenti in cambio di una banconota. La perquisizione confermò che si trattava di droga e Cucchi venne condotto in centrale per l’arresto. Fino ai momenti precedenti l’interrogatorio Stefano stava bene, si trovava in buone condizioni di salute e non lamentava alcun dolore fisico, ma il giorno dopo, all’udienza di convalida, era chiaro che aveva difficoltà a camminare e a parlare e mostrava evidenti ematomi agli occhi. Il giudice convalidò l’arresto di Cucchi, disponendo l’applicazione nei suoi confronti della custodia cautelare, e fissò la prima udienza del processo per il successivo 13 novembre. Stefano non si presentò mai al processo: morì in solitudine e tra atroci dolori il 22 ottobre 2009.
L’inarrestabile volontà di Ilaria Cucchi
Se il 4 aprile scorso la Cassazione ha confermato le condanne per Di Bernardo e D’Alessandro è fondamentalmente grazie alla tenacia, alla volontà e al desiderio di giustizia di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. Si è mobilitata fin dal primo giorno per ottenere la verità sulla morte del fratello. Non ha mai creduto che gli ematomi sul volto di Stefano fossero stati causati da una caduta accidentale – come venne riferito inizialmente – ma ha intravisto, dietro i lividi e le fratture, una spregiudicata mancanza di rispetto dei diritti umani. In tutti questi anni è stata appellata in vari modi, in molti hanno pronunciato falsità nei confronti di suo fratello, ma niente e nessuno l’ha mai fermata dal suo obiettivo: fare giustizia per la morte di Stefano.
Il depistaggio
Uno dei momenti decisivi nei lunghi anni di indagini e processi è stato sicuramente quello del 20 giugno 2018 che ha mostrato finalmente la verità: qualcuno stava insabbiando le prove. Francesco Tedesco, uno dei carabinieri che avevo fermato Stefano Cucchi la sera del 15 ottobre 2009, presentò alla Procura della Repubblica di Roma una denuncia contro ignoti nella quale notificava la scomparsa di una annotazione di servizio redatta da lui stesso la sera del 22 ottobre 2009, quando Cucchi morì, indirizzata ai suoi superiori. In questa annotazione dichiarava di aver assistito ad un violento pestaggio del giovane da parte dei due colleghi, Alessio De Bernardo e Raffaele D’Alessandro e che il suo intervento non era stato sufficiente a porre fine alla violenza.
A seguito della denuncia di Tedesco, la procura avviò un’indagine affidata al sostituto procuratore Musarò che iscrisse nel registro degli indagati otto militari dell’Arma con le accuse di falso ideologico, calunnia, omessa denuncia e favoreggiamento.
Le parole di Ilaria Cucchi dopo la sentenza
E’ inimmaginabile la sensazione che deve aver provato Ilaria Cucchi alla sentenza di lunedì scorso, dopo anni di battaglia per far luce sulla morte di suo fratello.
All’uscita dall’aula si è detta disorientata, “persa in un immane dolore per quanto inflitto alla mia famiglia durante tutti questi anni”, ma anche sollevata e felice “di poter mettere la parola fine sull’omicidio di Stefano. giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l’hanno portato via. Devo ringraziare tante persone, il mio primo pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grazie al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui.”
Giustizia per tutti
Episodi violenti come quello accaduto a Stefano Cucchi devono portarci a lottare per una giustizia in grado di difendere tutti, senza limiti ne vincoli. La giustizia è possibilità e la possibilità offerta è uno strumento di redenzione. La violenza è mancanza di possibilità e dove questa manca, non è pensabile creare qualcosa di positivo, per nessuno.