di Francesca Radaelli
Dire che è ‘fuori moda’ suona ormai quasi come un eufemismo. Sicuramente non accade spesso, oggi, di sentir parlare di diritti umani. Si direbbe anzi che negli ultimi tempi siamo forse più abituati, mediaticamente parlando, a vedere messo sotto accusa chi prova a difenderli.
In questo contesto, forse, rappresenta un’eccezione quello che accade a Monza. Qui, anno dopo anno, l’appuntamento con i diritti umani si rinnova il 10 dicembre, grazie alle iniziative promosse dall’UPF – Universal Peace Federation e all’impegno del presidente della sezione monzese dell’associazione, Carlo Chierico, in occasione dell’anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani firmata all’Onu nel 1948. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”: questo il primo dei 30 articoli di una carta che quest’anno ha spento 70 candeline, e che purtroppo, dopo tanto tempo, è ben lontana dall’essere la bussola ideale dei governi del mondo. Una carta che, però, può continuare a parlare, e vivere, nella quotidianità delle persone.
Ha voluto affermarlo con forza la giornalista Carlotta Morgana, conduttrice del convegno di quest’anno – dal titolo “Diritti umani: focus su Birmania, Siria, Togo” – assieme allo stesso Carlo Chierico: “Quando la politica smette di occuparsi delle persone, deve essere la società civile a scendere in campo per la difesa dei diritti”, ha sottolineato, richiamandosi alle parole pronunciate dal direttore generale di Amnesty International Gianni Rufini.
A ben vedere, la buona notizia, oggi, è proprio questa: nella società civile c’è ancora chi continua a impegnarsi, a scendere in campo, a rimboccarsi le maniche. Una notizia che fa lo stesso impercettibile rumore di una foresta che cresce. A ricordarlo è stato Fabrizio Annaro, direttore del Dialogo di Monza, il giornale online che le buone notizie ha deciso di metterle in prima pagina: “La foresta che cresce sono le azioni degli uomini di buona volontà, che ci sono, esistono e agiscono. E che possiamo essere tutti noi, nella nostra vita di tutti i giorni. Non saremo forse mai una maggioranza, ma come quella ‘minoranza dei giusti’ di cui parla il Talmud potremo avere la forza di portare avanti il mondo intero.”
“Il mondo si cambia anche attraverso piccoli gesti compiuti nella quotidianità”, gli ha fatto eco Carlo Chierico. E spesso le notizie più vere si trovano lontano dalla luce dei riflettori. Per esempio nell’incontro, ai bordi di un campo di calcio, con una persona che vive a pochi passi da noi ma arriva da un paese minuscolo e remoto dell’Africa, e di cui alle nostre latitudini si conosce poco o nulla.
È così grazie a questo incontro, tra Carlo e il togolese Kokouvi Aligbo che possiamo conoscere la storia di questo giornalista costretto a chiedere l’asilo politico per aver scritto articoli non graditi al presidente del suo Paese. Ascoltandolo parlare scopriamo l’esistenza di una dittatura che dà a tutti da mangiare, ma esercita un controllo assoluto sulle risorse risorse economiche e sulla libertà delle persone: “Il Togo sarebbe un paese ricchissimo, ma dopo il colpo di stato qui non ci sono più diritti umani, solo ‘doveri umani”, ha spiegato Kokouvi Aligbo. Come quello di alzarsi in piedi e applaudire – abbandonando qualsiasi altra occupazione in cui si è impegnati – ogni volta che passa il dittatore. O quello di votare il candidato giusto alle elezioni, per evitare che l’esercito entri nella propria casa e massacri la propria famiglia.“Tutti conoscono la situazione in Togo, sia i Paesi confinanti in cui c’è la democrazia, sia i membri dell’Onu”, rimarca Aligbo. Ma a quanto pare gli interessi della Francia nella ex colonia sono troppo forti per poter intervenire.
Da altre parti del mondo c’è però chi prova a cambiare le cose, senza abdicare dalla responsabilità di essere un simbolo per il proprio popolo. È il caso, in Birmania, di Aung San Suu Kyi, insignita del Premio Nobel per la Pace nel 1991 e oggi diventata bersaglio di una feroce campagna mediatica che la accusa di collusione con le azioni repressive attuate dal governo. Una situazione che ancora una volta fa comprendere come la comunicazione fatichi ad aderire al vero valore dei fatti e spesso a strumentalizzare persone e fatti. Del resto, come ha sottolineato l’ex senatrice Albertina Soliani, promotrice a suo tempo dell’Associazione dei parlamentari amici della Birmania, “i media internazionali spesso tendono a semplificare situazioni molto complesse che coinvolgono questioni geopolitiche di importanza regionale e anche mondiale, e spesso è legata a doppio filo ai grandi interessi occidentali”. E così accade che Aung San Suu Kyi, durante la sua detenzione agli arresti domiciliari, diviene in Occidente il grande simbolo dei diritti umani violati. Ma quando invece, uscita dalla detenzione, compie la precisa scelta di assumere su di sé la responsabilità che le deriva dall’essere diventata per il suo popolo, il simbolo dell’unità birmana, di colpo viene ‘scaricata’ dagli occidentali. Non le si perdona di partecipare a un governo in cui il 25% del potere – e i ministeri di Interni , difesa e confini – continua a essere detenuto dai militari, che perseguitano la minoranza musulmana dei rohingya in uno scenario che rimane tutt’altro che democratico. “Lei ha deciso, per il bene del suo popolo, di giocare il proprio ruolo civile, di provare a fare tutto quello che può fare con gli strumenti che ha a disposizione. Non ha accettato, una volta al governo, di mettere il suo paese nelle mani dell’Occidente come è capitato in diversi altri Stati vicini”, ha spiegato Albertina Soliani. Lei, con Aung San Suu Ky ha instaurato un vero e proprio legame di amicizia, recandosi più volte in Birmania. Un rapporto reso possibile da un amico speciale, ora scomparso e sempre ricordato da Albertina con affetto e commozione: Giuseppe Malpeli, il quale un po’ per caso un po’ per destino, ma soprattutto animato da una forte ispirazione spirituale nell’impegno per gli altri, è riuscito a stringere una profonda relazione con la donna simbolo della Birmania, che continua fino a oggi.
La questione di fondo, il dilemma posto dalla vicenda di Aung San Suu Kyi e da molte altre, si riassume in una domanda: che cosa fare di fronte alle violazioni dei diritti e della libertà? Meglio accettare di rimanere un simbolo astratto, rifiutando la possibilità di agire – pur all’interno di un perimetro ristretto e delimitato – per cercare di migliorare la situazione, oppure provare a mettere in atto quella ‘rivoluzione spirituale’ che secondo la stessa leader birmana può accompagnarsi alla politica? Limitarsi a proclamare i diritti umani, oppure scegliere di viverli?
E la domanda non si pone solo ai grandi leader politici. C’è infatti chi sceglie di rimboccarsi le maniche e fare qualcosa anche senza essere a capo di un governo. È il caso di Lorenzo Locati, ex professore di educazione fisica e fondatore a Monza dell’associazione Insieme si può fare Onlus, nata per portare aiuti umanitari nei territori devastati dalla guerra in Siria e che ha nel suo stesso nome il proprio principio ispiratore. Insieme, per il popolo siriano martoriato dalla guerra, in questi anni, è stato fatto non poco, come ha spiegato con entusiasmo Lorenzo. Un esempio su tutti? La Plaster School, letteralmente ‘scuola cerotto’: “Perché non abbiamo la pretesa di risolvere il problema, ma proviamo almeno a metterci un cerotto”. È una scuola che raccoglie gli ultimi degli ultimi: bambini con handicap, o costretti a lavorare per strada, o duramente segnati dalla guerra in corso.
Proprio il diritto all’istruzione è, tra quelli contenuti nella dichiarazione, il principale principio ispiratore dell’associazione, un diritto che dovrebbe essere di ogni bambino, ma che, puntualmente, in guerra passa in secondo piano: “Prima della guerra, in Siria il livello della scolarizzazione era altissimo, il paese era una sorta di ‘Svizzera del Medio Oriente’”, spiega Lorenzo Locati. “Nel giro di sette anni il tasso di istruzione dei bambini siriani è sceso al 15%. Si sta creando un cocktail micidiale di ignoranza, indigenza e violenza che nel migliore dei casi renderà questi bambini, una volta cresciuti, schiavi dei potenti. Nel peggiore dei casi non farà che alimentare altra violenza”. Lorenzo mostra alla platea le fotografie dei campi profughi e degli aiuti – cibo, vestiti, latte in polvere per i neonati ed enormi scorte di pannolini (l’articolo più richiesto da chi abita nel campo). Racconta di quanto in una sola serata si è riusciti a raccogliere grazie a un’unica ‘dinner charity’, narra episodi vissuti durante i viaggi in Siria che fanno sorridere e commuovere. Forse ciò che resta più impresso è però la lettera ricevuta da una bambina siriana, che ha voluto scriverla in italiano, che parla di un paese massacrato “dal regime, dall’estremismo e dall’indifferenza del mondo civile”.
Indifferenza. È proprio questa parola, forse, la chiave di tutto. La stessa parola che, come ha ricordato Carlotta Morgana, Liliana Segre, sopravvissuta all’Olocausto, ha voluto scrivere a lettere cubitali all’ingresso del memoriale della Shoah di Milano. L’indifferenza che lei stessa racconta di aver sentito sulla sua pelle quando, bambina, dovette lasciare la scuola in seguito alle leggi razziali e nessuno, né i compagni né i maestri si chiese che fine avesse fatto.
Proprio la tragedia dell’Olocausto mise in moto i lavori che portarono il mondo, settant’anni fa, a firmare la Dichiarazione e soprattutto l’indifferenza è ciò che occorre combattere oggi, ogni giorno, partendo da chi ci sta più vicino. Tutti i membri del genere umano sono titolari dei diritti scritti nella Carta dell’Onu, allo stesso modo. Forse solo abbandonando la logica del ‘prima noi’, ‘prima gli italiani’, potremo far scomparire quella differenza tra ‘noi’ e ‘loro’ che oggi va per la maggiore e che sembra aver annullato all’improvviso ogni diritto individuale e universale.
Il superamento di questa differenza Ettore Fiorina lo ha visto incarnato nell’esempio biblico di Rispa, la madre la cui storia ha voluto raccontare a introduzione della serata, una madre che decide di vegliare i figli e tutti coloro che sono morti insieme a loro, perchè “ogni figlio è figlio di tutti”.
In cambio avremo forse una parola di ringraziamento, o qualcuno dei bellissimi sorrisi mostrati in fotografia da Lorenzo Locati. Forse vincere l’indifferenza non basterà a fare la differenza, nelle sorti del mondo. Ma basterà a collocarci dalla parte dei ‘giusti’, dalla parte di Rispa, di Aung Saan Su Kyi, di Lorenzo, di Giuseppe, di Albertina. Di chi sceglie di realizzare la propria piccola rivoluzione, spirituale o civile che sia, di rimboccarsi le maniche e di provare a ‘mettere un cerotto’ da qualche parte.
Insomma, dopo 70 anni, i principi scritti nella Dichiarazione universale dei diritti sono affidati a noi. E sta a noi far sì che chi ci sta intorno possa continuare a leggerli. Continuando noi stessi a scriverli, nelle nostre vite e nelle nostre azioni. Fedeli al grande dovere contenuto nel primo dei trenta principi della Carta: “agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. In quanto esseri umani, “dotati di ragione e di coscienza”.