di Achille Taccagni
“Quando siamo arrivati all’albergo ho visto che era proprio così lussuoso come diceva mia madre: e io che credevo che era di lusso l’albergo dove andiamo tutti gli anni a Cervia. Mi ha fatto impressione il lusso della sala d’ingresso: la mochett, i cristalli scuri, le lampade moderne. Ci siamo messi in fila davanti al banco del portiere, la mamma si è tolta la pelliccia e la stola, le teneva su un braccio, si guardava negli specchi delle pareti ma siccome con l’altra mano teneva la borsa di coccodrillo e la cassettina dei valori non poteva aggiustarsi i capelli o asciugarsi il sudore. Era seccata di figurar male in quell’ambiente, ma tutti avevano un’aria un po’ di barboni, donne che non avevano avuto il tempo di pettinarsi, altre col bambino in braccio e una sporta di pannolini, gente con borse chiuse male che uscivano cravatte e calzini, tutti avevano caldo e avevano l’aria di vergognarsi. I commessi in divisa e i facchini con il grembiule a righe ci guardavano come bestie strane, guardavano quelle borse chiuse male e tutti i golf e le giacche che la gente metteva sulle poltrone perché tutti avevano caldo, avevano avuto la stessa idea di mia madre di mettersi molte cose addosso, e l’aria condizionata non funzionava perché le porte continuavano a aprirsi per la gente che andava e veniva. In quell’albergo di lusso erano certamente abituati a clienti di riguardo, e noi sembravamo dei profughi e ci guardavano dall’alto in basso. Dopo un po’ i bambini hanno cominciato a piangere, o a dire che volevano far pipì, e le donne chiedevano dov’era il bagno. Si aspettava di essere chiamati, famiglia per famiglia, da un signore che aveva un elenco e spuntava i nomi, e ogni tanto diceva «silenzio, per favore».
Finalmente hanno chiamato noi, ci siamo avvicinati al banco, il papà ha consegnato i documenti e ha
ricevuto la chiave. Dietro il banco c’era la reclàm di un safari nel Kenia, io mi sono incantato a guardarla ma la mamma mi ha toccato e mi ha detto «su, su»”.
L. Conti, Una lepre con la faccia di bambina, Editori Riuniti, Roma 1978, pp. 52-53. Il testo è stato ripubblicato nel 2021 per i tipi di Fandango Libri.
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Il 26 luglio di quarantacinque anni fa, 227 persone residenti nella zona nord di Seveso, al confine con Meda, venivano evacuate dalle proprie case e sfollate in un hotel di Bruzzano, il Leonardo da Vinci. Secondo le autorità che avevano disposto l’evacuazione, quest’ultima sarebbe durata per il solo tempo necessario alla bonifica delle aree contaminate dalla diossina dell’incidente dell’ICMESA, avvenuto due settimane prima: in realtà quelle persone non poterono più tornare nelle proprie case, perché nel frattempo fu disposta la distruzione di tutti gli edifici della cosiddetta “zona A”, quella dove erano state trovate le più alte concentrazioni di diossina nonché quella da cui provenivano gli sfollati.
È notizia dei giorni scorsi l’inizio dei lavori di abbattimento dell’ex hotel, poi residence, Leonardo da Vinci di Bruzzano. Un intervento salutato dalle autorità locali con estrema soddisfazione , dato che l’abbandono ormai ventennale dell’immobile impediva qualsiasi intervento di riqualificazione complessiva di un quartiere, dice l’assessore Granelli, “che ha visto gli aspetti più critici dell’urbanizzazione senza regole alla Ligresti permessa da un modo anomalo di amministrare il Comune, ma che ora sta cambiando e ha davanti un futuro prossimo diverso” . La demolizione ha quindi assunto un valore simbolico, come a significare la distruzione non soltanto di un “modo anomalo di amministrare il Comune”, ma anche di un’edificazione sregolata, figlia di un tempo in cui tutto il valore delle aree verdi stava nella loro edificabilità e in cui le volumetrie potevano crescere sostanzialmente incontrollate. Qualcuno ha ricordato sorridendo che l’abbattimento del Leonardo da Vinci si porta via anche il set di una delle scene che hanno più contribuito a costruire l’immagine del “progresso alla milanese”: è in quel residence che si trasferisce Artemio, il protagonista del Ragazzo di Campagna, costretto a vivere in un minuscolo cubicolo iper-accessoriato e wc a scomparsa, esibiti orgogliosamente da Renato Pozzetto con quel “taaac” che nell’immaginario collettivo rappresenta Milano quasi quanto il Duomo.
È passato invece sotto silenzio il legame che quel luogo ha avuto con il disastro di Seveso, di cui ricorre proprio oggi il quarantacinquesimo anniversario. Di quell’evacuazione, che Laura Conti descrive con estrema dolcezza e intensità nelle vicende di Marco e Sara, protagonisti di “Una lepre con la faccia di bambina”, non è rimasto granché nella memoria condivisa della nostra terra. Al contrario: la parola “diossina” ha un suono strano da queste parti, tanto che a pronunciarla si viene spesso guardati storto, con stupore o, nella maggior parte dei casi, con fastidio. Tutto ciò che riguarda il disastro dell’ICMESA è stato fatto oggetto di una rimozione collettiva, come se il desiderio di levarsi di dosso quell’etichetta di appestati che si portavano dietro gli abitanti di Seveso, Cesano e Desio negli anni successivi al 1976 avesse cancellato ogni traccia del ricordo di quei giorni. E che lascia acceso un dubbio che è una voragine: come sarebbe stato il nostro territorio, come avrebbe vissuto la nostra gente il rapporto fra lavoro e ambiente, fra progresso tecnologico e sviluppo sostenibile, fra artigianato e industria, fra cittadini e stranieri, se non avesse compiuto questa rimozione? Se avesse fatto veramente propria la memoria di quanto accaduto dopo quel drammatico 10 luglio 1976? Se avesse ricordato anche soltanto per un istante di essere stata, oltre che avvelenata, sfollata e ospitata in un altro luogo, vicino certo, eppure diverso da casa? “Non è stato necessario requisire i locali che ospiteranno la gente di Seveso poiché la proprietà dell’hotel si è dimostrata disponibilissima ad accettarla”, scrive La Stampa il giorno dell’evacuazione.
Sotto i colpi delle ruspe a Bruzzano va in macerie il ricordo di quel momento in cui duecento brianzoli, per usare le parole della Conti, sembravano dei profughi, evacuati dalle proprie case diventate tossiche per colpa di un incidente nella produzione industriale. Altre ruspe più insidiose sono già intervenute da queste parti da molto, troppo tempo. E il “futuro prossimo diverso” che aspetta Bruzzano tarda a mostrarsi, appena un po’ più a nord.