Si scrive hamburger, si legge mattone

fast food
La formula del franchising, in italiano “concessione” o “affiliazione commerciale”, nasce verso il 1930 nel mondo della ristorazione ed esplode negli anni ’50 con le catene di fast food statunitensi. Il gioco consiste nel far affermare un marchio commerciale sul mercato, per poi cedere “chiavi in mano” l’utilizzo dello stesso a imprenditori con capitali da investire. In realtà non si tratta soltanto dell’adozione del marchio, ma anche delle materie prime, degli standard di preparazione dei prodotti, dell’arredamento dei locali e delle divise dei dipendenti. Il franchisee paga una quota di affiliazione alla catena godendo in cambio di un ritorno di immagine basato sugli investimenti della casa madre in pubblicità, marketing, capacità produttiva.

Una delle imprese leader e pioniere di questo settore è McDonald’s, nata quasi cent’anni fa in California. Oggi è l’azienda di ristorazione fast food più grande al mondo, con un fatturato annuo di oltre 25 miliardi di dollari USA e oltre 400.000 addetti. Ma i ristoranti effettivamente posseduti e gestiti da McDonald’s sono solo una piccola percentuale rispetto a quelli gestiti da concessionari: negli Stati Uniti, appena il 10% dei 13.000 punti vendita. Ciò che era poco noto è che, negli anni, la catena ha acquistato o costruito molti dei locali in cui si è successivamente insediato un franchisee, il quale dunque non è solo un venditore di panini e patatine fritte griffati con il celebre marchio, ma anche un affittuario di McDonald’s. Un piccolo impero del mattone che pare renda più dell’attività gastronomica.

Non ci sarebbe nulla da eccepire se non fosse emerso che, in Europa, McDonald’s proporrebbe ai concessionari affitti in alcuni casi 10 volte più alti del prezzo di mercato. La voce degli affitti dei locali pesa all’incirca per il 65-70% sugli utili incassati dalla catena nel Vecchio Continente. Ciò svelerebbe il “mistero” della differenziazione di prezzo tra gli hamburger serviti nei locali gestiti direttamente da McDonald’s e quelli proposti nei locali in franchising, quasi sempre più cari. Questa situazione è stata denunciata da un pool di associazioni di tutela di consumatori italiane con il supporto dei sindacati, che hanno presentato un esposto contro la catena statunitense presso l’Antitrust europeo. Tali pratiche violerebbero infatti il principio della libera concorrenza e si configurerebbero come abuso di posizione dominante. I danneggiati da questa politica, secondo le associazioni dei consumatori, sarebbero sia i franchisee sia i consumatori finali.

Se queste pratiche fossero provate, si prefigurerebbe una sicura sanzione milionaria che potrebbe sommarsi ai risultati di un’altra inchiesta in corso da parte delle autorità comunitarie, in questo caso per elusione fiscale. Infatti anche McDonald’s, come Google, Microsoft o Amazon, utilizzerebbe l’ormai noto meccanismo di “ottimizzazione fiscale”, dichiarando gli utili in un Paese a fiscalità privilegiata (in questo caso il Lussemburgo) per evitare il pagamento delle tasse negli Stati dove si è svolta l’attività commerciale.

Il caso degli affitti maggiorati di McDonald’s è un altro tassello che permette di ricostruire lo stato dell’arte della globalizzazione economica. Dalle promesse iniziali di stimolo del mercato e della concorrenza, abbattendo i costi dei prodotti a beneficio dei consumatori, i giganti multinazionali hanno accumulato ingenti capitali provenienti anche da tasse non versate, applicato logiche da cartello imponendo prodotti e prezzi, spazzato via qualsiasi tipo di concorrenza nazionale e addirittura, se sarà confermato, inventato nuove modalità per aggirare le normative esistenti, come quelle antitrust, con clausole capestro che alla fine si traducono in maggiori costi per i consumatori.

L’accusa di dumping, cioè la pratica di uno Stato che sovvenziona un produttore così da permettergli di esportare sottocosto e sbaragliare la concorrenza su altri mercati, è oggi rivolta quasi solo nei confronti della Cina. Ma simili meccanismi di concorrenza sleale si possono trovare anche nelle viscere di quelle imprese che, dopo aver promesso un mondo migliore e più aperto al business, lo stanno invece trasformando in un “cortile di casa” gestito da un numero sempre più ristretto di padroni del vapore.

Alfredo Somoza

image_pdfVersione stampabile