Intervista a cura di Francesca Radaelli
Una giovane donna scende da un aereo. Indossa un lungo abito verde e sorride sollevando leggermente la mascherina. Inizia con questa immagine la tempesta mediatica che nei giorni scorsi si è abbattuta sugli schermi dell’Italia della Fase 2, rubando la scena a virologi e statistiche sui contagi. Nel giro di poche ore, da questa immagine, si è arrivati alle minacce di morte e ai lanci di bottiglie. In mezzo, un crescendo di messaggi di odio sui social, fake news, dichiarazioni di esponenti politici ai limiti della diffamazione. Una vicenda che dimostra quanto sia stretto e a volte pericoloso il rapporto tra social network, informazione e politica. Per approfondire meglio il ruolo della comunicazione, ci siamo rivolti a Laurenzo Ticca, giornalista televisivo di lungo corso.
Cosa pensa della vicenda mediatica legata al ritorno in Italia della giovane volontaria Silvia Romano, ostaggio per 18 mesi dei terroristi di Al Shabab?
Nella reazione della Rete mi ha colpito soprattutto il processo di de-umanizzazione di Silvia, una ragazza di venticinque anni diventata di colpo un oggetto da odiare. E con lei, tutte le ONG, vero bersaglio politico ultimo, da tempo nel mirino. Proprio la de-umanizzazione è il presupposto che porta – come accaduto in molti altri casi nella storia – all’insulto, all’odio, al dileggio. Da parte degli utenti dei social non ha prevalso l’analisi razionale o la contestazione motivata, e dunque legittima, del volontariato all’estero: a essere rilanciati da più parti sono stati l’odio e gi insulti, resi ancor più violenti dalla misoginia.
Silvia è solo l’ultimo caso. A novembre per motivi analoghi a Liliana Segre è stata data la scorta. Come è possibile generare tanto odio attraverso i social network? A chi giova?
È difficile ricostruire con precisione il meccanismo. Sicuramente i messaggi di odio si moltiplicano naturalmente in un Paese incattivito come il nostro. Ma accanto a questo c’è una speculazione politica spesso organizzata scientificamente, che si serve anche di alcune testate giornalistiche. Sappiamo bene che in Italia ci sono movimenti politici che sull’odio per l’altro fondano gran parte del proprio consenso. E sui social può entrare in campo anche l’uso di account falsi, creati solo per alimentare l’odio. Le vicende del Russiagate sulle elezioni americane del 2016 hanno portato alla luce addirittura l’utilizzo di bot automatizzati per aumentare la diffusione di alcuni tipi di post o commenti (i ‘bot’ sono profili robot creati in serie, programmati per interagire automaticamente con i social, ndr). L’obiettivo è alimentare il cosiddetto ‘pregiudizio di conferma’: l’utente medio non usa la Rete per informarsi, ma per cercare conferme a quello che già pensa e persone che la pensano come lui. Alimentare questo meccanismo è pericoloso per la democrazia, che dovrebbe fondarsi sul diritto dei cittadini di esprimere un voto razionale e informato. Invece, oggi si punta soprattutto alla conquista del consenso facile e, in questa prospettiva, i social sono lo strumento ideale.
Gli utenti di Facebook e Twitter hanno libertà di parola. Per un giornalista, invece, dovrebbe entrare in campo l’etica professionale. Eppure spesso ciò che circola sui social diventa immediatamente una notizia riportata da testate autorevoli, senza alcuna verifica delle fonti. Quale dovrebbe essere il ruolo del giornalismo?
Purtroppo le testate giornalistiche spesso sono strumenti di battaglia politica. Oggi il giornalismo è anche fango: certi titoli lo dimostrano. Di pari passo con il degrado della politica avanza anche il degrado della professione: la deontologia professionale oggi è una chimera. D’altronde, se nel video si vede Silvia che si passa una mano sulla pancia, il giornalista può scrivere benissimo: “C’è chi, a partire da questo gesto, ha ipotizzato che la ragazza sia incinta”. L’etica professionale dovrebbe impedire di scrivere una frase del genere, ma il giornalista che la scrive non può essere accusato di aver prodotto una fake news. Per non parlare poi della disintermediazione, che riduce molto il campo d’intervento del giornalista: l’informazione oggi passa sempre più attraverso le dirette facebook dei politici.
Come ci si difende dall’odio che invade la Rete? Le persone di buon senso dovrebbero sottrarsi al confronto o scendere in campo anche su questo terreno?
Penso che si debba sempre controbattere punto su punto e cercare di difendere la verità, la razionalità e i valori etici. Ma mi rendo anche conto che questa rischia di essere una battaglia persa in partenza. Siamo un Paese in cui dilaga la povertà materiale e morale. Un paese frustrato e rancoroso. Più portato all’odio e alla rabbia che al confronto. Per questo sui social network l’odio vincerà sempre. Sarebbe necessaria una nuova alfabetizzazione culturale e morale, che insegni alle persone a guardare oltre i titoli di propaganda, oltre i messaggi d’odio, che insegni ad approfondire e analizzare razionalmente ciò che si legge online.
L’anno scorso il deputato Luigi Marattin ha proposto l’obbligo di un documento di identità per aprire un profilo social. Può essere una soluzione?
Sicuramente in qualche modo la Rete va regolata. Ma d’altra parte ogni proposta di limitare la libertà individuale e la privacy porta con sé una dose di pericolo e viene guardata con sospetto. Basta pensare al recente dibattito sull’opportunità o meno di tracciare gli utenti per controllare la diffusione del Covid 19. Per quanto riguarda i social network, bisogna tenere presente che la profilazione e la diffusione dei dati sensibili è uno dei grandi temi del nostro tempo. E del futuro.
19 maggio 2020