Silvio Pellico e la sua eredità

di Fabrizio Annaro

“Dio è proprio il padre dei derelitti” Così Silvio Pellico conclude uno dei capitoli de “Le Mie Prigioni” opera che racconta  i dieci anni (1820-1830) trascorsi in carcere con  l’accusa di appartenere alla Carboneria e di aver cospirato contro il governo austriaco. Arrestato a Milano insieme a Maroncelli, successivamente trasferito a Venezia e infine  a Spielberg, Pellico ha vissuto la sua esperienza detentiva con coraggio e grande dignità. “Dio è proprio il padre dei derelitti” è la frase che sintetizza il cammino umano e sofferente di Pellico: privato della libertà “Le mie prigioni” raccontano del travaglio interiore e della sua relazione con Dio.

pellico1L’uscita del libro provoca ammirazione, ma anche molte critiche. Anzitutto dai suoi   compagni con i quali aveva condiviso la passione per la patria e per la libertà.   L’intensa vita religiosa coltivata fra le mura del carcere aveva condotto Pellico a rivedere criticamente l’epoca dei lumi,  che aveva bandito e aspramente criticato la religione e il Cristianesimo.  Per questo motivo molti dei suoi “amici” avevano cercato di scoraggiare  Pellico dalla pubblicazione dell’opera.

Il libro ebbe un grande successo che portò a tacitare le voci critiche. Il tono, le righe, i pensieri riflettono lo stato d’animo dell’autore costretto  al carcere duro. Malgrado l’estrema sofferenza, Pellico trova in alcuni compagni di cella, nei secondini, ma soprattutto nella preghiera e nel dialogo interiore un motivo di vita e di speranza che lo aiutano  a resistere e a capire il profondo senso della vita. Pellico non nasconde le sue debolezze, le sue paure, i suoi rimpianti la mancanza della sua famiglia.

pellico3Vive  momenti di malattia fisica e di disturbi psicologi come i ripetuti attacchi di panico che, da un certo punto, svaniscono miracolosamente. Pellico attribuisce all’azione della Grazia il motivo della guarigione e della suo definitivo abbondo di ogni dubbio circa la fede e la religione: “io credea come la moda imponeva, che la religione non vale altro che ad indebolire la mente … Ma quando mi accorsi che i terrori non vennero, giubilai e nella piena della mia riconoscenza mi gettai a terra ad adoralo e a chiedergli perdono d’averlo per più giorni negato … Io era guarito.” Gli amici di un tempo con i quali  Pellico aveva celebrato l’avvento illuminista e con esso il culto della ragione, lette queste righe divennero acerrimi avversari.

Egli stesso fu perplesso ed incerto se pubblicare il manoscritto. Incoraggiato dal padre spirituale proseguì nella stesura, ma divenne decisivo il consiglio della madre: “tutto dee farsi – ella dissemi – per obbedire alla propria coscienza e nulla pei rispetti umani”.

Obbedire alla propria coscienza è uno dei suoi insegnamenti. Ma lui è anche il padre di quella futura classe dirigente che, a causa delle proprie convinzioni e degli ideali di libertà,  subisce il carcere per poi essere chiamata a costruire la democrazia e il dopoguerra. Una classe dirigente cresciuta nel sacrificio e nel martirio, figlia sua e di quei tempi e che appare, oggi, come un vago ricordo.

Si spegne il 31 gennaio 1854 e ad oltre 160 anni dalla sua morte, ci rimane come sua eredità il suo pensiero e la grande rettitudine morale.  

 

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