Sorrentino racconta un nulla inenarrabile, in 142 minuti di pellicola, sotto lo splendido scenario di Villa Reale, addobbata a sala cinematografica in occasione dell’evento “Cinema sotto le stelle”. Lo schermo è gigante, la platea affollatissima, pochi sono i posti che rimangono liberi.
Toni Servillo si mostra impeccabile, dai tempi de “Il Divo”, da premio Oscar per la sua mimica facciale. Il suo Jep è di pungente genialità, come la maggior parte dei suoi personaggi. Carlo Verdone, un tragico mal riuscito, in un personaggio che indossa abiti presi da un armadio di un perfetto sconosciuto, insieme a dei comici baffetti che, seppur l’apprezzabile sforzo, non gli conferiscono l’aura sacrale dell’intellettuale, quale vorrebbe essere, o farci credere che sia. Carlo Buccirosso, un must di Vanzina, dopo Cirino Pomicino, convince e non convince.
Paolo Sorrentino, regista e sceneggiatore (con Umberto Contarello), lascia a bocca aperta. Avanguardistico e post-moderno. Riempie lo schermo d’immagini a intermittenza, fino a renderlo una tela astratta, piena di colori non complementari, di forme diverse e opposte, che tendono a una perfezione come meta, che, però, non viene raggiunta. Sorrentino meriterebbe la corona d’alloro, se non fosse per l’amara e pietosa descrizione caricaturale che ci propone dell’universo femminile.
Le donne sono tutte splendide, Isabella Ferrari in primis, seguita dalla spogliarellista romana Sabrina Ferilli, dall’intellettualoide di sinistra famosa più per i bagni dell’università che per le sue pagine stampate, Galatea Ranzi. Nessuna è portatrice sana di valori veri, tutte queste maschere femminili sono stereotipi della donna sottomessa all’uomo, che fa carriera nel letto del segretario del Partito, allucinata dai soldi, dal sesso, dalla mondanità delle scadenti feste delle terrazze romane. Donne vuote, quali nessuna donna vorrebbe essere.
È vero, a queste si aggiungono una nana, brillante e intelligente, una donna delle pulizie, materna e protettrice, e una santa, costruita sul prototipo di Madre Teresa che svela, sul finale, quale sia la bellezza essenziale, la Grande Bellezza. Donne “diverse” (asessuate?), che fanno da sfondo per la loro unicità, non protagoniste della vita dell’ultimo film di Sorrentino. Modelli di vita, ma descritti di scorcio. Agiscono dietro le quinte, senza esemplificare il modello di donna che Sorrentino vuole mostrarci.
Infine, senza apparire nei titoli di coda, tra la schiera delle donne, c’è la decadenza dell’Italia, magistralmente descritta. Roma è sinonimo di festa, di trenini brasiliani che partono senza decollare, senza arrivare in nessun altro posto che non sia quello costruito attorno all’alcool, al sesso, alla droga e all’assordante musica commerciale. Jep si diverte, ma la malinconia lo pervade. Ha scritto un buon libro in giovinezza, ma ora è inabissato nel tunnel del blocco dello scrittore.
Vuole la perfezione, cerca l’assoluto per le sue pagine e per la sua vita, consapevole che questi siano impossibilitati a materializzarsi nella Roma salottiera, futile e nottambula che frequenta. Insegue la misteriosità e la bellezza, è alla costante ricerca delle proprie origini: poi finisce sempre lì, a divertirsi in compagnia della propria insoddisfazione. Ma da questa non riesce a staccarsi, ormai è parte del suo Io. Roma è protagonista, anch’essa donna. Una donna che non può arricchirti, e che si gioca la scena con momenti che portano lo spettatore alla riflessione, non ben guidata dal regista. Sorrentino ci indirizza, senza però indicarci quale sia la chiave che può aprire le varie porte che il film ci invita a dischiudere.
Nulla è immediato, e una morale finale, se c’è, non è chiara. La vacuità e la ricerca di sé sono abilmente contraddistinte da musiche che esemplificano i due opposti, che accompagnano la scena e la fotografia, divenendo traduzioni compiute e inappuntabili degli stati d’animo e delle situazioni di vita descritte. All’uscita non sono pochi i mormorii di chi non è riuscito a seguire il film, di chi è stato preso alla sprovvista dai flash d’immagine, spesso non immediatamente correlabili l’uno all’altro e da chi interpreta, ognuno a proprio modo.
Ed è anche questa la Grande Bellezza di questa insolita pellicola italiana, sbarcata a Cannes: Sorrentino ci lascia liberi di viaggiare, incanalandoci in suggestivi percorsi, lasciandoci immaginare infiniti percorsi. E Villa Reale, in tutto questo, ci mette del suo.
Camilla Mantegazza