Storie di donne calabresi

luna

di Camilla Mantegazza

“Non mi ricordo la prima volta che ho sentito bisbigliare la parola ‘ndrangheta, la ‘ndrangheta non si nomina, la si intende senza pronunciarla, chi ne appartiene la rinnega, chi non ne ha niente a che fare, si guarda bene dal nominarla, perché i calabresi hanno dentro l’antidoto e il veleno, conoscono le verità e non sanno niente, salutano ‘a tutti, e non riconoscono ‘a nessuno, forse sarò stata nel grembo di mia madre, ma credo che nessun calabrese lo ricordi. Nasce con noi, come quel senso di disperata sopravvivenza, siede nelle nostre tavole povere e dorme nei nostri letti umidi. La criminalità organizzata è come uno spirito maligno che si insinua nelle menti dei più afflitti e li trasforma in uomini d’onore”.

Rosy Canale, Malaluna

Capelli lunghi, di un rosso intenso, incorniciano due grandi occhi scuri che creano un forte contrasto con la sua pelle di porcellana, al di là di ogni cliché sulla donna calabrese. Un tacco dodici, dello stesso colore dei suoi capelli, non a caso, portato con fierezza e con orgoglio, slancia un corpo esile e fragile. Un corpo che è stato picchiato brutalmente, ridotto in fin di vita, immobilizzato in un letto per mesi, sdraiato per quasi un anno.

Sono i capelli, la pelle, il tacco e il corpo di Rosy Canale, sul palco a testimoniare la sua inumana esperienza con la ‘ndragheta, al teatro meneghino Franco Parenti, venerdì 18 ottobre, in anteprima assoluta. Non è un’attrice, ma nessuno meglio di lei avrebbe potuto mettere in scena la sua storia di sfida alle cosche. Un monologo di 60 minuti, intenso, che si è meritato una standing ovation finale che pochi spettacoli si conquistano.

Forse è la testimonianza diretta e il racconto in prima persona che commuovono; forse è il dramma della sua storia recitato con la forza della sua voce; forse è la tenacia di una donna che fieramente porta avanti i suoi valori non piegandosi dinnanzi a nessuna minaccia. Le parole sono ritmate sulle note di Franco Battiato e creano un’atmosfera particolare, riescono a far immedesimare il pubblico nei vicoli calabresi, assolati e afosi, dove alla legalità si preferiscono le leggi della malavita.

Rosy racconta la sua vita concentrandola in poco più di un’ora. Malaluna è stato il suo più grande successo, un locale di punta  a Reggio Calabria che le procurava cifre esorbitanti. Purtroppo, però, Rosy si accorse subito di quel traffico di polverina bianca che invadeva il suo locale. Si oppose, con coraggio, perché animata dalla convinzione che “chi non si ribella è complice”. La mafia era lì, tra quei ragazzi che frequentavano il Malaluna. I vertici di quel traffico di cocaina, però, non accettarono l’animo di quella donna, fermo e risoluto. Galline sgozzate, macchine bruciate, “le cose tue sono cose nostre”, minacce continue che preannunciavano la tragedia. Poi ospedali, riabilitazione, trasferimenti, lontananza da Micol, la figlia che, per cinque mesi, ha creduto morta la sua mamma. Roma, New York. Strage di Duisburg, 15 agosto 2007, ultimo atto della faida di San Luca. La svolta.

Rosy decise che le donne di San Luca, epicentro della mafia calabrese, sarebbero dovute divenire il seme del cambiamento. Fondò un’associazione che non si preoccupava di sconfiggere la ‘ndrangheta, come la stampa di tutto il mondo sostenne, ma di creare nuovi valori e nuovi modelli per tutte quelle mogli, madri e sorelle cresciute in un ambiente contaminato dalla mafia, vittime degli uomini e della vita che costoro decidevano di intraprendere, perché a San Luca “è vanto accompagnarsi sotto braccio con un ‘ndranghetista”.

Creò una ludoteca, il successo durò tre anni. Queste donne vi trovarono un’alternativa a ciò a cui erano costrette all’interno delle loro mura domestiche. Rosy intuì che la metamorfosi della Calabria doveva partire da lì, perché le donne avrebbero potuto sconfiggere la mafia, perché la loro rieducazione alla legalità, avrebbe permesso a queste madri di veicolare valori nuovi ai loro figli, consentendo loro di non cadere e di non cedere alla cultura mafiosa.

Tutto finì, quasi improvvisamente.  Rosy si scagliò contro lo Stato, a cui furono chiesti aiuti per permettere il proseguimento dell’attività  e un’ulteriore sviluppo. Aiuti che mai arrivarono, richieste che mai furono soddisfatte. Lo Stato non sa cos’è la mafia e non vuole capire cosa significa vivere dove la criminalità regna, grida Rosy, delusa e stanca, ma pur sempre consapevole di quale sia e di come si debba concretizzare la sua lotta alla mafia. Manuali di storia raccontano, opinionisti “si fanno grandi” credendo di sapere tutto ma non conoscono nulla, e Rosy ne è consapevole.

Non possono capire cosa significa crescere a Fiumara, “paese di ‘ndrangheta strega malefica”, referente per Cosa Nostra dell’area dello Stretto, far west, braccio armato della Madonna della Montagna. San Luca può capire e le madri, sorelle, mogli dei cinque ‘ndranghetisti morti a Duisburg, anche. È per questo che 400 donne si sono unite al movimento creato e sognato da Rosy. Battiato, intanto, interpreta i sentimenti di queste donne lasciate sole e con le sue parole chiude lo spettacolo. Gli applausi dettati dall’ammirazione e dalla commozione, intanto, sembrano non volersi più fermare.

Ma non vi danno un po’ di dispiacere quei corpi in terra senza più calore?

Franco Battiato, Povera Patria.

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