Suo marito era un muratore con il terrore del terremoto, chiodo fisso e paura incontrollata. La loro casa era stata costruita con le sue mani esperte, per assecondare quelle stesse paure che non gli davano tregua: fu una delle poche che alle 3.32 di quel 6 aprile del 2009 non si sottomise agli irrequieti capricci della terra.Rimase in piedi, seppure alcune crepe siano visibili ancora oggi. Tre anni per rientrare, nulla di più: lei è stata una delle poche “fortunate”. Non c’è tempo per chiederle il suo nome, ma poco importa.
E’ sabato pomeriggio, sono circa le 17.00, la pioggia non vuole cessare: quello di quest’anno è un agosto che non dà tregua. La signora di via XX Settembre, nel centro storico de L’Aquila, sta andando a Messa in piazza: il Duomo sembra in forma. Fiero e slanciato maschera perfettamente le sue debolezze.
Ma sembra che per lui non ci sia nulla da fare date le condizioni che si svelano al suo interno. Adiacente alla Cattedrale Metropolitana dei Santi Massimo e Giorgio si appoggia il Palazzo Arcivescovile che mise in fuga preti sanguinanti, avvolti nelle coperte, scossi dal dolore e dalla paura sollevatasi da quella terra tremante, che da secoli non rassicura i suoi abitanti.
La signora si interrompe, tra le lacrime trattenute. Ci scusiamo, quasi colpevoli di voler rubare un ritaglio di vita troppo doloroso ma lei ci rassicura: il pensiero del 6 aprile è costante, tutto è ormai legato a quell’indescrivibile istante e non parlarne non allevia il dolore.
Ogni giorno ricorda quella serie di scosse, quel buttarsi in strada abbandonando il proprio rifugio, tra il caos, le urla e i pianti, senza sapere dove andare, cosa fare, senza conoscere nulla del suo domani.
Ma la terra li aveva avvisati, aveva fatto di tutto per creare l’allarme. Quelle due scosse intorno alla mezzanotte, quelle che avevano fatto tremare le pareti, mentre, stanca, chiudeva la porta per andare a letto: quelle l’avevano avvisata. La signora è arrabbiata: lei era convinta che “terremoto non avrebbe scaricato”, come si dice in gergo ma si sbagliava.
Come fosse delusa da se stessa, ricorda che persino i suoi libri di scuola le avevano detto che quelle 3.32 del 6 aprile sarebbero arrivate: bastava rileggere la cronologia del sisma del 1703 e la storia avrebbe fatto da maestra, li avrebbe allarmati. Suo marito aveva paura, lei no, lei lo rassicurava: “questa volta non scarica, te lo dico io”.
Intanto, la signora decide di ripiegare sulla Chiesa di Santa Maria del Suffragio, che, ad oggi, garantisce le funzioni religiose, tra pannelli che oscurano, puntelli che contengono e ponteggi che aiutano la precaria ricostruzione. Anni fa, la donna di via XX Settembre si preparava per la Messa con ore di anticipo, sicura che lungo il suo tragitto avrebbe trovato gente conosciuta con cui soffermarsi.
Oggi ha trovato noi e con ironia chiede se le macerie ci hanno fatto perdere l’orientamento, avendo da anni perso l’abitudine di incrociare volti e sorrisi nel buio di quelle vie. Questa è la conseguenza più straziante di tutta la vicenda che ha seguito il terremoto, ci spiega la signora dai capelli bianchi.
Ogni contatto umano si è perso, tutti gli abitanti del centro sono stati dislocati nella periferia di nuova costruzione, ignorando che tutto ciò avrebbe rotto quei decennali rapporti che in una vita si erano costruiti, tra corso Federico II, piazza Duomo e tutte le vie del centro. L’Aquila è morta, L’Aquila non esiste senza i suoi abitanti: cinque anni dopo.
Esiste l’Aquila dei centri commerciali, delle palazzine di nuove costruzione. Ma l’Aquila di coloro che “gridarono tutti insieme: facciamo una città così bella che nessun’altra nel regno la si possa paragonare” è morta.
Chiediamo indicazioni per raggiungere l’Ufficio Turistico per raccogliere spicciole informazioni su ciò che rimane della città fantasma: una volta era proprio là, tra Piazza del Duomo e corso Federico II. Ora è chiuso, anch’esso dislocato fuori dal centro. Chiediamo anche di un Ufficio Postale: non è più in Piazza del Duomo. L’hanno ricostruito, in quella che era la periferia. Conviene prendere la macchina, sia per l’Ufficio del Turismo sia per le Poste.
Un caffè, però, lo si può bere tranquillamente, qualche bar funzionante c’è ancora, per coloro che lunedì saranno impegnati nei lavori di ricostruzione, da poco iniziati presso sporadici edifici.
La signora ci saluta, sono le 17.30 e non vuole arrivare in ritardo alla Messa. “Gli aquilani sono tenaci”, sorride e se ne va.
Camilla Mantegazza
Foto di Paolo Terraneo
Sono stato a L’Aquila il giorno dopo di voi e una signora mi ha detto: «Gli Aquilani sono forti» e io penso che si meritino di esserlo. Voglio tornare laggiù quando la città sarà ricostruita, per ammirarla e per dire «Bravi».