di Laurenzo Ticca
Primo Levi, nato nel 1919, suicidatosi nel 1987. Una vita e una morte radicalmente segnate dall’abominio di Auschwitz. In quel campo Levi fu internato nel dicembre del 1943 , a 24 anni.
Dopo l’8 settembre si era unito alle formazioni partigiane in val d’Aosta . Arrestato dai tedeschi fu inviato nel lager polacco. Lì, in quel luogo di sterminio toccò con mano la radicalità del Male. Un esperienza dolorosa che ne cambiò l’esistenza. Fu la ferocia nazista che portò Levi, dopo la liberazione ( l’ Armata rossa entrò ad Auschwitz nel gennaio del ’45 ) a testimoniare in forma letteraria l’angoscia del campo, l’insensatezza della Shoah.
Levi seppe trarre da quella esperienza (“ Più di cosi non si può andare” scrisse “Condizione umana più misera non è possibile” ) la forza e il coraggio per guardare in faccia gli abissi che la storia e l’animo umano sanno spalancare. Si interrogò sulla natura del male, universalizzò in forma letteraria l’esperienza degli ebrei passati per il camino. ( “siamo arrivati al fondo” )
Lui quella voragine la guardò con lucidità e coraggio. La raccontò in libri straordinari ( Se questo è un uomo, I sommersi e i salvati, La tregua, Se non ora quando?). Probabilmente come tanti sopravvissuti avvertiva il peso, forse il senso di colpa per essere sfuggito all’olocausto ( perché io sì e gli altri no?). Una domanda lacerante, un macigno sul cuore. Nel 1986 consegnò alla sua casa editrice “ I sommersi e i salvati”. Un libro contro ogni forma di rimozione, di revisionismo. Un testo che mette in guardia contro la memoria che con il tempo corre il rischio di relativizzare e manipolare tutto. Anche l’Olocausto.
Ricordando il suicidio di Jean Améry ( autore di “Un intellettuale ad Auschwitz”) Levi scrisse che nessuno conosce le ragioni di un suicidio, nemmeno l’autore del gesto. Non sappiano cosa sia scattato nella mente di Levi l’11 aprile del 1987, nella sua casa di Torino. Sappiamo che era depresso e possiamo immaginare, solo immaginare, che il peso di quella vita lo abbia indotto a guardare la tromba delle scale e a decidere di lasciarsi cadere. Verso il fondo.
Laurenzo Ticca