Grazie a chi ha scritto, a chi ha fotografato, a chi ha suonato.
Grazie a chi ha costruito dal nulla questi tandem.
Grazie a chi ha portato la propria testimonianza di donna, di mamma, di lavoro.
Grazie a chi ha organizzato, documentato e pubblicizzato.
Grazie alle Amministrazioni Comunali di Monza e Lissone che hanno promosso, sostenuto e favorito il progetto.
E infine, un grazie a chi ha voluto dedicare il proprio tempo a leggere,
contemplare e ascoltare questo TANDEM di sguardi e parole, di donne e lavoro.
LA REDAZIONE DE “IL DIALOGO DI MONZA”
***
Conversazione
Testo Ketty Magni. Fotografie Anna Fossati
La stanza è attraversata da fasci di luce che filtrano ad illuminare il lavoro. Intorno, mucchi di tessuto aspettano di prendere forma. Corinna ha tra le mani una stoffa variopinta di rose fiorite, che sembrano sprigionare fragranze e stimolano il senso olfattivo. Inventiva e manualità sono le basi del suo mestiere. C’è voglia di fare.
Mani sapienti allungano, pressano, senza tralasciare un solo centimetro. Un disegno preciso accompagna il percorso della cucitura. L’ago scorre discreto, buca e insinua il filo nelle trame della stoffa. Blocca il tempo.
Prima di muoversi bisogna calcolare ogni gesto con perizia, per ottenere un prodotto finito esteticamente attraente. Si va avanti con movimenti cadenzati per manovrare la tela di broccato. Finalmente, l’ago chiude il percorso circolare e raggiunge il punto di partenza. La fodera del cuscino è pronta per essere riempita di imbottitura morbida, per attutire i colpi della vita.
Suona il telefono. Corinna sposta le dita, ornate di anelli, risponde e stacca per un attimo dal lavoro. All’altro capo, la voce femminile di Francesca è un concentrato di vivacità. Parla come se stesse volteggiando.
Tra le chiacchiere si diluiscono gli affanni. Le due amiche argomentano di natura, di cibo, di mondi lontani che avrebbero visitato volentieri, di avventure, di divertimento, di trucchi. Sfogano i malumori, le preoccupazioni, e si scambiano confidenze, tra alternati silenzi e chiacchiericci.
Francesca è preoccupata per il nuovo spettacolo. Vorrebbe arricchire il suo costume di scena e chiede consiglio a Corinna.
“Vieni da me stasera” suggerisce l’amica “così ne parliamo con calma. Ti preparo qualcosa di veloce da mangiare.”
“Va bene, purché sia qualcosa di leggero. Insomma frutta e verdura” replica Francesca congedandosi. La ballerina deve esercitarsi con costanza per raggiungere l’obiettivo e guadagnare il consenso del pubblico. Gira su stesa stessa, mentre tiene il ritmo incalzante della musica. Rapida, salta in alto e si libra in volo. Poi, leggiadra come una farfalla sfiorata dal vento apre la braccia e ricade a terra. Rotola, calcia, fa una capriola e come un’onda si rialza. Piega le gambe, porta la mano alla fronte e l’allontana. Con slancio, tenacia, pazienza, misura, precisione, coltiva la sua spiccata attitudine per la danza. Occorre una predisposizione ad insegnare, e si preoccupa che il suo corpo di ballo segua gli stessi passi. Non è facile lasciarsi andare gesti, che esprimano la personalità di ogni singolo individuo, in un gruppo di corpi che si intrecciano con dinamico mescolamento.
“Uno, due, tre, quattro” ripete senza stancarsi, e si prodiga in suggerimenti.
Anche Corinna riprende il suo lavoro: inventa, crea, modella, cuce, infila il filo nell’ago dalla cruna sottile, fissa i bottoni con l’intelligenza della mano. Si reinventa ogni giorno, in un rinnovamento incessante.
Finché lo sguardo cade sull’orologio da parete e realizza il passare del tempo. Abbandona il lavoro, si infila il cappotto e si precipita nel traffico cittadino. Al mercato c’è la solita confusione, ma lei sa già dove dirigersi. E’ una cliente della signora Maria, l’ortolana della bancarella all’angolo.
“Non ho ancora pensato a cosa preparare per Franci” riflette “mi farò consigliare.” La merce è disposta con cura sul banco. Ortaggi e frutta fresca sono in bella mostra per attrarre i soliti clienti e gli altri passanti.
Maria si è alzata presto questa mattina per venire al mercato. Si è coperta bene per combattere il freddo, e ha raccolto i capelli dorati in una crocchia. E’ al lavoro da parecchie ore, ma non perde la voglia di comunicare. Parla dei prodotti più convenienti, spiega come cucinarli, racconta del tempo.
“Mi dica, bella signora” dice rivolta a Corinna.
Incoraggiata dal complimento, l’altra donna spiega che le servirebbe qualcosa di appetitoso e al contempo leggero.
“Bisogna stare attenti a non pungersi con i carciofi!” raccomanda l’ortolana “Ma se ha voglia di pulirli, sono ottimi. Bei freschi!”
Corinna pensa alle sue mani e all’odore di crema che avrebbe dovuto spalmare per ammorbidire e schiarire la pelle. Intuito il problema, Maria suggerisce di strofinare le mani con il limone prima di pulire i vegetali, e di riempire una bacinella con acqua e limone per mettere a bagno i carciofi e non farli annerire. Dopo questi suggerimenti Corinna si convince all’acquisto, e mentre sfila il guanto per prelevare il denaro dal portafoglio, avverte un brivido di freddo. Lei non è abituata a stare a lungo all’aperto con quelle temperature. In parallelo, riflette sulla straordinaria vitalità femminile della fruttivendola, che ha già preparato il sacchetto avvolgendo le spine dei carciofi nella carta.
“Non ha freddo?” le chiede.
Maria sorride, poi alza le spalle incurante, e sospira quasi per consolarsi: “Oggi almeno non piove!”.
E Corinna, concentrata in pensieri atmosferici, divenuti positivi, risponde: “E’ vero! Oggi almeno non piove!”.
Fili rossi
Testo Gianna Martina. Fotografie Erminia Maniglia
Camminiamo vicine. Le tengo il gomito, ma senza la pretesa di darle una direzione.
Le mie gambe sono parti meccaniche mosse da un motore che non so dove sia nascosto. Io parlo e Anna mi ascolta silenziosa. I suoi occhi mi dicono che con me continua ad avere la pazienza di sempre.
Fa caldo ma non sudo. Si avvicina l’ora che stabilisce la fine del pomeriggio per sancire l’arrivo della sera, ma in estate è un passaggio rosa, rapido e relativo.
Domani mi sposo. Sono tranquilla. Se non fosse per il fatto di non avere ancora… una collana.
Entriamo nel cortile di un antico palazzo seicentesco, è come essere nella pagina di una fiaba.
Non c’ è nessuno. Osservo i tavoli, le tovaglie, gli argenti, i cristalli e i fiori.
Un’angoscia mi cala addosso : mi sento schiacciare e mi manca l’aria.
A fatica muovo qualche passo fino al tavolo più vicino. Fiori come carta velina. Peonie. Mi attirano. Sfioro delicatamente con le dita. Petali rosa pallido staccati e sparsi sulla candida tovaglia.
Ne prendo uno. Lo annuso. Lo infilo in bocca e comincio a masticare. Un gusto amaro sale lungo la lingua e invade il palato. Il petalo fatica a ridursi in poltiglia. Inghiotto.
Un profumo soave mi pervade la bocca. Voglio profumare il mio bambino.
Usciamo. Dopo pochi passi mi fermo di fronte a una botteguccia, tutto è piccolo e illuminato da poche candele. Per solcare l’uscio devo abbassarmi. Monili esposti in questo antro cupo, difficili da distinguere.
Ma non appena l’adocchio, la riconosco. E’ lei. La mia collana.
Contratto con un commesso secco, piccolo, intonato all’ambiente ed esco.
Ce l’ho al collo. Centinaia di fili di perle imperfette di corallo rosso.
E’ splendida. Mi parla: sussurra all’orecchio qualcosa di soave che non distinguo. E’ pesante. Sono costretta a camminare curvandomi. Allora l’afferro per l’estremità inferiore. Provo sollievo.
I fili rossi schiacciano il mio seno e riempiono le mie braccia.
Mentre cullo le mie perle imperfette, un suono roboante spacca cielo e udito. Spalanco le braccia, lascio andare le perle che mi tirano giù. Crollo sulle ginocchia, incurvata. Non voglio sentire. Porto le mani alle orecchie. Gocce enormi e violente tamburellano sulla mia testa. Continuano a farmi male schiaffeggiando la mia pelle diafana e penetrandomi negli occhi ormai brucianti…
“Agata, Agata! Svegliati! Era un sogno… un brutto sogno forse.”
“Anna… un… sogno… era strano… sento qualcosa che mi schiaccia forte… Anna non riesco a respirare…
Ho paura!”, intanto stringo le mani di Anna con una forza che mi sbianche le nocche.
E’ pallida Anna, ha occhi acquosi di lacrime. Mi sovviene tutto ciò che ho tentato di sublimare dormendo.
Sfioro il mio ventre, come bara ambulante. Da oggi sarà così.
Inattesa
Testo Silvia Biffi. Fotografie Stefania Sangalli
Mattina grumosa
scricchiolano secondi
Robinie macinano Primavera.
Femmina incerta
sguardo vorace di ciliegia
eco danzante in punta di piedi.
Treccia di paglia
a legare spalle quadrate
filo di rame dolce da mangiare.
Profumo di litchis
stanza debole, carta bianca
desiderio sull’orlo della gonna.
Sala d’aspetto
fantasia lubrificante
scartoffie ricalcano crepe nel muro.
Confine imprevisto
sarà calma o sole, noi
eccentrici centri di cielo perso.
Ricami di voce
fogli di foglie e di tempo
utopica inventiva della noia.
Inquietudine
Testo Lorenza Casati. Fotografie Paolo Terraneo
Ogni sera, durante il viaggio di ritorno verso casa, vedevo dal finestrino del treno passare le immagini veloci di stanchi paesaggi tormentati, instancabili strade di periferia e solitarie, scure stazioni. Ogni volta gli stessi colori da quel vetro appannato, quasi a far scomparire tutti quei pensieri che durante la giornata mi avevano inseguita in mezzo a voci estranee, imbronciati sorrisi e decisioni dimenticate. Allontanai un lungo sospiro mentre, con la testa appoggiata al duro schienale, fuggivo da una mediocre riflessione per tutte le parole che fino a quel momento avevo trattenuto dentro di me, forse per un senso di scrupolo verso tutto ciò che ormai era terminato e sapevo non sarebbe in nessun caso ritornato.
Dentro casa, durante ogni notte, rimanevo abbandonata ed inerte nel letto, esplorando il vuoto e inseguendo la luce che filtrava dalla finestra socchiusa, allontanando instancabile, tutti quei desideri che ritornavano dentro me, puntualmente, per raccogliere così i passi di una danza antica nella quale fluttuavano i luminosi ardori di una polvere di stelle dimenticata. Ammiravo quel ritmo sino allo stremo della mia conoscenza per affondare dentro un torpore privo di sfumature e avvicinandomi cosi e per sempre nel continuo ripetersi della mia esistenza, come incessanti onde impazzite che si gettavano contro la roccia del mio cuore. A volte, quando ero incapace di addormentarmi, mi ripetevo a voce alta le vecchie filastrocche dell’ infanzia smarrita, consolando il lento passaggio di ombre notturne attraverso il buio della vita mentre il canto mi nascondeva dalle luce invadente della verità.
Nelle tenebre della notte potevo cancellare la tristezza e la rabbia, il sorriso e la malinconia, il rancore e il perdono che sapevo indugiare nelle immagini appartate di un finestrino velato, che ogni giorno sedeva accanto a me, in quel viaggio dentro il destino dove nessuno osava guardare le filastrocche che si agitavano nel mio sorriso, nè intravedeva il pallore stellare sulla mia pelle o ascoltava il ricordo dei sogni dentro i miei occhi scuri. Tutti aspettavano in silenzio le loro consapevolezze insignificanti, preoccupandosi di ricevere ciò che la propria realtà gli aveva celato mentre io rimanevo ad attendere l’inizio della mia rinascita e sfuggivo a tutti i loro sogni liberandomi così dagli sguardi severi.
Nell’infinita nostalgia mentre stringevo i miei occhi dentro le gelide mani, desideravo il ritorno del mio amore spezzato, liberando, quasi a voler svelare, quel volto mai lasciato dal mio viso ingabbiato. Lo accarezzavo fin quando il cielo sopra di me vibrava di luce e suoni, passioni e ricordi, vita e morte ed il viaggio, così cominciato, offriva al mio corpo la commozione di un’inquieta solitudine.
“un, due tre stella stai con me, quattro, cinque sei, la porta è aperta e tu dove sei? Sette, otto, nove cuore cuore cuore, dieci ora mi volto e torno indietro…un, due, tre…..”
Serie
Testo Alberto Cannizzaro. Fotografia Tatiana Barone
Riprodotta in serie
senza interruzioni,
scarti previsti
scarti inevitabili
Capelli, testa, bocca.
Riprodotta in serie
senza compromessi
nessuna pausa
nessuna protesta
Braccia, busto, gambe.
Riprodotta in serie
senza differenze
la specie umana,
la specie non umana.
Riprodotta in serie
capelli lunghi
testa vuota
bocca larga
braccia deboli
busto avanti
gambe scoperte
Riprodotta in serie
vapore
silenzio
capienza
debolezza
provocazione
invito
Riprodotta in serie
condannata
intrappolata
sottomessa
Aquilone
Testo Alberto Cannizzaro. Fotografia Tatiana Barone
Quella mattina l’aria era fresca e oltre la piccola finestra della sala grande si poteva scorgere il sole che con forza e caparbietà cercava di farsi largo nel denso strato di nebbia che dalla notte precedente copriva l’orto e la campagna. Poco più in là, in attesa di essere svelata, potevo scorgere la sagoma della paziente quercia. L’impercettibile e costante movimento ascendente della grigia coperta notturna era accompagnato da un canto corale di piccoli punti di colore alati celati nella trama nera dei rami. Gli stessi che sostenevano la mia altalena da cui ho preso il volo verso l’oggi. Dondolavo, ricordo, spingendo le mie gambe oltre la loro lunghezza, avanti e indietro. Dondolavo lasciandomi spingere dalle premurose mani paterne che una volta aperte riuscivano a coprire interamente la mia schiena e accompagnavano l’aria dentro di me trasformandola in risate di gioia. Dondolavo, con le mani ben salde alle catene perché, e l’ho scoperto solo da adulta, i sogni han più forza se, come un aquilone, vengono tenuti a terra da fili invisibili.
È curiosa la primavera quando arriva. All’inizio non si stanca mai di sbocciare ogni giorno. Ci sveglia ed è già luce, ma una luce grigia come quella delle mattine d’autunno. Poi il sole inizia a scaldare la terra e a svelare la verità delle cose in tutta la loro bellezza: minuscole ugole all’unisono con l’ombra e con la luce.
Quante volte hanno penetrato quella finestra e si sono mischiate all’acqua gelida del pozzo, hanno lavato le mie mani, il mio viso, il mio corpo bello. Pelle candida e liscia adagiata su forme pronunciate e armoniche, lunghi capelli ricci e del color del legno, occhi di ghiaccio, presi dalla mamma, mani robuste prese dai giochi infantili.
Le lavo con cura, sono importanti, sono i prolungamenti della testa e del cuore. Saluti, carezze, schiaffi, paura, stanchezza, pensieri, materia. Senza mani si cade dall’altalena, non si sente la consistenza della terra, la freschezza della neve. Non si sente il calore di un corpo, i suoi sussulti, il suo contrarsi. Senza mani non si può quasi mai camminare nel buio, o forse non si vuole.
L’unico modo per affrontarlo è a casa propria, dove l’esperienza quotidiana del viverci permette di muoversi sicuri.
Quegli uomini che dalla mia porta sono entrati ed usciti amavano il buio di casa mia e per questo io amavo loro, tutti allo stesso modo perché l’assenza di luce non mostra le differenze, non crea pregiudizi, dona serenità. E allora non mi importava se fossero liberi di volare di pianta in pianta o se degli esili fili di ragnatela li legassero ad altre radici. E ad ognuno non importava se ci fossero altri prima o dopo di loro perché l’importante ero io e la loro felicità ogni volta che li accoglievo e gli davo l’arrivederci con una carezza.
Le lavo con cura oggi come le lavavo con cura allora e conto sorridendo i segni lasciati dal tempo e penso sorridendo a tutte le pelli che hanno salutato. Da quelle più segnate dalla fatica, a quelle appena abbandonate dalla giovinezza, a quelle inesperte e più vibranti.
La terra è calda, lascia il segno, è la nostra madre. Nella terra l’acqua non gela, ma permane, si mischia, nutre, compie la sua missione che parte dal cielo, dove volano gli aquiloni.
Strade
Testo Camilla Mantegazza. Fotografie Giovanna Monguzzi
La notte. Solo la notte accoglie le mie parole, abbandono le mie maschere.
Nascosta, avvolta dal buio, invisibile.
Notte, un nascondiglio segreto dove la mano del mondo non può seguirmi.
Le mie inquiete parole, prive di spazio nella luce.
Scrivere è aprirsi alla solitudine.
Sforzati, aiutami, avvicinati alla penna del mio io, mamma.
Quando il futuro era opportunità, serenità, attesa. Non paura.
Senza nulla, sei diventata.
Correvi, senza la paura del giorno.
La notte era solo la notte. Buio, sonno, sogni, dolcezza, amore.
Di giorno eri, di notte eri.
Realizzata senza nessun rifiuto, per essere ciò che sei.
Non dirmi che noi abbiamo avuto tutto, mamma.
Quando il futuro era opportunità, serenità, attesa. Non paura.
Vorrei scrivere di viali ritagliati tra le chiome potate di un albero.
Vorrei scrivere di pensieri arrugginiti su di te, mentre il treno scorre.
Vorrei scrivere della nostra diversità, immaginazione, sogni, fotografie, libri, viaggi, futuro.
Vorrei guardare con speranza al mio e nostro domani, e scrivere di lui.
Posso?
Da sempre saldamente ancorata al tuo domani comprendimi, mamma.
Quando il futuro era opportunità, serenità, attesa. Non paura.
Come un eroe da palcoscenico
Che inveisce
Si trafigge con la propria spada
E, rotolandosi, cade a terra.
Quale sarà il mio posto?
“Sguardo duro,
piede lungo,
risposta tremenda,
occhi scuri,
pensiero chiarissimo,
faccia stupenda”.
La tua e la mia poesia più bella.
Straordinario
Testo Katia Ratti. Fotografia Dario Cogliati
La voce della segretaria risuonò maledettamente antipatica: «Il direttore ha bisogno che lei stasera si fermi fino alle otto.»
«Oh no! Non ne posso più!» sbottò Michela.
«Anche oggi ti tocca», le giunse puntuale il commento di Giada, la nuova collega in servizio da circa un mese nello stesso ufficio.
Erano quasi le otto e Michela fremeva sulla scomoda sedia da impiegata. Le scartoffie impilate facevano bella mostra del suo alacre lavoro.
«Mi faccia venti fotocopie di questo», le ordinò il direttore senza neppure guardarla.
Michela afferrò il foglio che l’uomo aveva abbandonato sulla scrivania e si diresse con passo nervoso verso la fotocopiatrice. Alzò il coperchio, prese con la mano sinistra il documento che qualche smemorato aveva dimenticato e depose con la destra il foglio del direttore. Selezionò “20”, start e si piazzò davanti agli occhi il foglio lasciato da chissà chi. Ogni suo movimento si placò.
«Sono pronte le copie?» irruppe di nuovo il direttore.
Michela gli piantò in viso due occhi che non lo vedevano, mentre la fotocopiatrice cigolava gli ultimi fogli nel vassoio. Corse alla scrivania, accartocciò il foglio, afferrò borsa e cappotto e si precipitò fuori dall’ufficio, inseguita dalle minacce di licenziamento del direttore.
Michela correva sulle strade della sua piccola città, come tirata da una lunghissima fune invisibile, finché giunse davanti a un alto cancello chiuso. Al di là di esso, fasci frastagliati di luci bianche e azzurre si agitavano verso l’alto. Toccò il cancello e un battente cedette sotto la spinta della sua mano. Avanzò sul sentiero sterrato, raggirò una cortina di arbusti sempreverdi e si dispose davanti alle luci. Erano tre, conficcate nel terreno, racchiuse entro una superficie non più grande di un tombino. Giada era lì, in piedi, al suo fianco: «L’esperimento è terminato. Siamo pronte per la disconnessione.»
Michela si posizionò sopra le luci e tutto il creato svanì.
Sembrava vuoto lo “spazio” attorno a loro. Invece conteneva molte presenze.
«Oh, finalmente a casa! Potevi riportarmi indietro prima!» comunicò bonariamente Michela a Giada, senza proferire suono.
«Non ti ricordi? Ordini tuoi: non prima di un miliardo centonovantotto milioni trecentosessantottomila e centosettantasei secondi. Ovviamente si intendono riferiti al tempo che abbiamo appositamente creato per quel mondo. Sei tu che hai ritardato di tremiladuecento secondi a leggere il codice di ritorno che ti ho lasciato» osservò Giada. «Allora, lo facciamo questo universo?»
«L’universo sì: è meraviglioso! È l’essere umano che non funziona. Hai visto come si è evoluto il mondo a partire dal nostro progetto iniziale? Troppe sofferenze, troppe ingiustizie… Per poter sopravvivere, le persone devono trascorrere troppo tempo a eseguire mansioni che le allontanano dalla propria realizzazione.»
«Significa che bisogna rivedere il progetto di essere umano?»
«Sì», affermò Michela. «Potremmo anche togliere la dimensione temporale e aggiungerne una spaziale», ipotizzò. «C’era una tale frenesia…»
«Così forse la vita sarebbe semplificata senza l’assillo del tempo», concordò Giada.
«Bene. Allora mettiamoci al lavoro!»
Virgole
Testo Aldo Germani. Fotografia Rita Masala
Ferma. Finalmente.
Obbedisce alla mano che la tiene coperta, anche se si è tolta tutto. Le si affida spoglia, acquietata e stanca, come ormeggiata a un porto sicuro. Un attimo solo, poi torna, alle cose che ha ancora da fare.
Ha bisogno di tempo per sé, di un approdo appartato, acqua bassa, l’eco ovattata di uno stagno silente, almeno per poco. Coi vestiti si è levata il giorno di dosso. Le voci e gli odori che vi si sono attaccati stanno stesi per terra, appassiti, svuotati del corpo che li ha sorretti finora. Li ha lasciati cadere, di colpo, sperando in un tonfo che non si è sentito, per buttare via i resti di quanto ha già fatto. Ma una parte le si deve essere impigliata ai capelli, perché al netto di quello che ha perso non si sente leggera abbastanza. Nella testa, su una giostra rotante, compare e scompare la traccia sfuocata delle ultime ore. Un panno passato per casa, quella mail importante, il carico del bianco, i dossier rimasti in ufficio, l’asilo, la relazione per ieri, cosa cucino per cena. Sotto la mano aperta a conchiglia il calco pesante di un elenco non del tutto spuntato. L’altra mano, sopra un foglio, lavora a uno dei tasselli mancanti. Una mano tiene in caldo i pensieri, l’altra si attiva per realizzarli. Si muovono spaiate, agiscono insieme, chiudono un circuito con la mente in un triangolo efficace e seducente.
Desiderava una pausa, una tregua soltanto. Invece rimugina altri calcoli a mollo, si porta avanti da qui, non stacca del tutto. Non lo fa quasi mai. Dissemina virgole lungo il percorso, i punti non le vengono bene. Procede per dissolvenza, sfumando un compito nel successivo, un incarico nella faccenda dopo, una mattina in laboratorio nella spesa in pausa pranzo, un impiego retribuito nel dovere domestico che lavoro non è il caso di considerare. Entra ed esce dagli stalli di un’agenda fitta senza soluzione di continuità. Scorre, senza farlo pesare, e da fuori appare tutto normale. Quasi scontato.
La mano preme, la sente appoggiata, ci si abbandona come a un riparo fidato. Le piacciono, le sue mani, si fida di loro come di poche altre parti del corpo, forse come nessuna. Tengono il ritmo che impone, si consumano senza darlo a vedere, accarezzano, sfiorano, afferrano salde e capaci. Lavoratrici instancabili. Mani di donna. Curate e solerti. Alleate fedeli in un gioco di squadra. Una penna stretta in pugno e una mano schiusa a contenere idee. Una forte, l’altra ospitale. Sasso e carta. Mamma giochiamo?
Un attimo ancora, tesoro. Un’ultima cosa. Ora smetto. E ricomincio.
Women in progress
Testo Valentina Paiano. Fotografie Zoe Salmi
Realizzare i propri sogni.
lottare, cambiarli, trasformarli e fallire
ma sempre sapere che i propri sogni sono il tuo futuro
ti alzi la mattina
stanco ti corichi la sera
non ci sono orari
non ci sono feste
non c’è routine
lo stomaco in subbuglio, l’adrenalina nel sangue e la testa che viaggia …
Credo sia questo l’esistere dell’artista.
Il teatro è un mestiere totalizzante, per me, per le persone con cui ho la fortuna e l’onore di condividere ogni giorno il viaggio della mia vita.
Ogni spettacolo una nuova indagine sull’uomo, una nuova avventura nel mondo, un nuovo passo, una nuova scoperta e sopratutto una nuova famiglia.
Poi ci sei tu, il tuo sentire, il tuo soffrire, il tuo vivere la tua esperienza, la tua creatività, la tua curiosità, la tua voglia di lasciarti andare e spiccare il volo.
Mettere a nudo le proprie idee, dare risposta alle proprie fatiche, lottare contro ciò che vuoi cambiare, sperare che una storia, una frase, una parola possa essere sentita con altre orecchie.
Essere all’altezza del privilegio che l’Arte ci fa quando possiamo diventare tramite di una sua espressione…
Non esiste un mestiere più facile di altri, non uno più bello, esiste solo il modo in cui decidi di rendere un lavoro parte di te, il valore che gli attribuisci, cosa cerchi in quel tempo e quanto vuoi che sia il tuo vivere.
Citando Wonder: “Tutti almeno una volta nella vita dovrebbero avere una standing ovation”. Credo sia questo il mio augurio a tutti coloro che hanno la forza, la fortuna e la tenacia di costruire un sogno.