di Marco Riboldi
Alcuni anni fa mi trovavo ad una riunione nella quale si dovevano decidere i nomi degli assessori da votare per la Giunta Comunale di Monza che si stava formando.
Come quasi sempre capita in queste occasioni, il numero di persone generosamente disposte a farsi nominare era superiore a quello dei posti disponibili. Da qui le nottate di discussioni, ragionamenti, talvolta scontri verbali piuttosto accesi (credete a me: sono esperienze che ogni elettore dovrebbe poter fare, tanto sono istruttive).
A un certo punto, giusto per alleggerire un po’ la tensione, proposi per un posto in Giunta il sig. Giuseppe della Cilana, detto Pino.
L’intervento creò un silenzio stupito: avevo, allora, un modesto rilievo nella comunità politica monzese e il nome di uno sconosciuto proposto da me suscitò un certo sconcerto.
Ahimè, non avevo tenuto conto che la composizione della riunione era… multietnica e che i monzesi purosangue scarseggiavano, cosicché nessuno riconobbe nella mia proposta il “Pin de la Cilana”, comprendendone il contenuto scherzoso.
Avevo semplicemente ripescato il ricordo dei racconti dei nonni, che, riferendosi ai loro anni di gioventù (se non addirittura a parole dei loro genitori), mi avevano parlato di questo e di altri personaggi.
In particolare ne ricordo tre.
Il primo era appunto questo “Pin de la Cilana”: un poveretto, alto e magro, sempre in giro con i piedi nudi infilati in scarpe scalcagnate o zoccoli precari, che mostrava a tutti la sua bocca grottescamente sdentata (pare si fosse fatto togliere i denti per una scommessa perduta) e induceva così a qualche modesto aiuto. Inutile dire che non era proprio del tutto lucido, per così dire.
Suo compagno di avventure era un piccolo e trasandato vagabondo, il profesur Casoeula, che girava per la città con un mandolino che aveva conosciuto tempi migliori.
Secondo mio nonno “ al sunava semper du o tri dlin-dlin”, che se ho ben capito significava proprio due o tre note sulle poche corde rimaste più o meno intatte (mio nonno, fino a che la prima guerra mondiale non gli portò via la possibilità di usare le dita della mano sinistra, era un buon suonatore di chitarra, quindi sentiva come offesa personale questa storia dei “dlin -dlin”) e da questo ricavava qualche elemosina.
Vi era poi la star dei tipi strani d’epoca, la più celebre e famosa: la Giulia Matta.
Era una donna in età, vestita di strati di stracci messi assieme alla bell’e meglio, che girava per la città raccontando a tutti le sue disavventure finanziarie.
Pare avesse perso i suoi denari nel fallimento della Banca di Sconto, il che la porrebbe negli anni dell’immediato primo dopoguerra. In effetti, dei tre personaggi è quello il cui ricordo era evidentemente più vivo, nei racconti che ho raccolto.
Si dice sapesse difendersi con grande vigore dai ragazzi sempre pronti a farle scherzi o a beffarsi di lei, e che avesse come caratteristica distintiva un paio di chiavi di casa che teneva legate al collo con una corda a mo’ di collana. Secondo i testi del professor Dante Fossati finì la sua esistenza in manicomio.
Tre personaggi, tre ritratti un po’ strampalati che raccontano di un mondo dove tutti si conoscevano, dove si riusciva a trovare un posto anche per persone come loro. Non credo fosse un mondo migliore del nostro: bene e male ci saranno stati allora esattamente come oggi. Forse era solo un po’ meno complicato.
Sia come sia, ecco qui una piccola testimonianza di un passato perduto, così come mi è stato raccontato (e come ricordo quei racconti). E di quando Monza era un’altra città rispetto a quel che è oggi.
O forse era la stessa, solo che non riusciamo ad accorgercene.