Quando, 14 anni fa, fu annunciato al mondo il sequenziamento dell’intero genoma umano, enormi aspettative furono riposte nelle potenziali applicazioni in medicina delle nuove conoscenze, e in particolare nel possibile incremento delle capacità predittive, diagnostiche e terapeutiche della genetica medica.
Uno degli sviluppi più importanti derivanti dalla mappatura del genoma è rappresentata dalla terapia genica. Questa tecnica fu concepita a seguito del grande progresso delle metodiche di biologia molecolare sviluppatesi a partire dagli anni ’80 che consentirono il clonaggio ed il sequenziamento di vari geni. Ciò comportò la precisa identificazione di molte alterazioni geniche in diverse patologie e la capacità, grazie alle tecniche del DNA ricombinante, di modificare microorganismi (come batteri o funghi) per poter far loro esprimere delle molecole d’interesse.
La terapia genica consiste nel trasferimento di uno o più geni sani in una cellula malata, al fine di curare una patologia causata dall’assenza o dal difetto di uno o più geni (mutati). Dunque, è necessario in primo luogo identificare il singolo gene o i diversi geni responsabili della malattia genetica. Sebbene le terapie siano generalmente sperimentali, si può tentare in secondo luogo, almeno per alcune malattie, la sostituzione dei geni malati sfruttando, ad esempio, come vettore un virus reso inattivo, svuotato preventivamente del suo corredo genetico.
Con un meccanismo piuttosto complesso, che richiede l’uso di ‘forbici’ molecolari enzimatiche, che si chiamano enzimi di restrizione (con cui si preleva il gene “sano”) si può poi ‘correggere’ il DNA, rimpiazzando le sequenze difettose, in modo tale che la cellula sintetizzi correttamente le proteine necessarie al corretto funzionamento metabolico. Questo approccio si è successivamente esteso anche alle patologie non mendeliane come tumori, infezione da HIV ed altre patologie in cui non si va a sostituire un gene difettoso ma se ne aggiunge uno che possa mettere in moto un fenomeno terapeuticamente utile.
Fino ad ora in pratica, questo approccio alla base della terapia genica, si era basato sull’aggiunta di copie funzionanti di un gene, quando quello originario era difettoso; oggi grazie al lavoro del gruppo di ricerca italiano guidato da Luigi Naldini si è riusciti per la prima volta a riscrivere il DNA di cellule staminali del sangue umano con una tecnica denominata Editing del genoma (tecnica introdotta per la prima volta dal premio Nobel Mauro Capecchi) che consente di correggere gli errori direttamente sul gene malato. In particolare, grazie a “bisturi molecolari”, gli scienziati sono riusciti a riparare con assoluta precisione il difetto responsabile di una grave immunodeficienza ereditaria, (SCID-X1) aprendo così le porte all’applicazione sull’uomo.
Con questo innovativo metodo lo stesso gruppo di scienziati ha ottenuto risultati notevoli su due gravissime malattie genetiche: la sindrome di Wiskott-Aldrich e la leucodistrofia metacromatica in cui ora è possibile eliminare il gene difettoso alla radice permettendo di correggere direttamente il Dna originario. Con questo nuovo metodo, insomma, dalle cellule bersaglio sparisce il gene malato un po’ come se si riparasse un osso fratturato, anziché fornire semplicemente una stampella.
L’editing (il termine deriva dall’inglese to edit, che significa correggere, redigere, stendere, commentare, compilare) del genoma si basa sull’introduzione nelle cellule da curare di un segmento di Dna terapeutico e di enzimi ottenuti in laboratorio: le nucleasi artificiali. Come gli strumenti di un sarto, questi ultimi tagliano via il pezzo difettoso, consentendo così l’attivazione dei meccanismi di riparazione cellulari, che copiano al suo posto la sequenza del DNA correttivo.
L’editing del genoma consente di correggere direttamente il difetto genetico, un po’ come riparare l’osso fratturato. È un vantaggio unico, in quanto permette di ripristinare non solo la funzione ma anche la naturale regolazione di quel gene (quanto, quando e dove viene espresso) cosa che oggi non è possibile fare fedelmente quando viene introdotto nelle cellule con un virus vettore, una nuova copia del gene dall’esterno. Uno degli elementi essenziali di questa nuova tecnica molecolare messa a punto sono le endonucleasi artificiali, proteine costruite in laboratorio e usate per indurre la modificazione di una specifica sequenza di Dna e che sono oggi al centro dell’attenzione dei ricercatori di tutto il mondo per le loro potenziali applicazioni nella ricerca. Le nucleasi artificiali sono costituite da due porzioni distinte, una in grado di legarsi a una precisa sequenza di lettere (basi o nucleotidi) sul Dna, che viene scelta nel gene da riparare, l’altra di tagliare il Dna e di mettere così in moto i normali meccanismi riparativi della cellula che ricopiano nel sito del taglio una sequenza corretta fornita alla stessa cellula. Si tratta di una vera e propria “equipe microchirugica” in grado di correggere difetti responsabili di malattie genetiche.
Questo importantissimo lavoro è stato effettuato nelle cellule staminali emopoietiche, le madri di tutte le cellule del sangue; normalmente queste cellule si trovano nel midollo osseo in uno stato di quiescenza, da cui si risvegliano periodicamente per replicarsi e rigenerare le cellule mature del sangue che naturalmente si consumano e muoiono. E’ stata inoltre dimostrata la possibilità di ingegnerizzare queste cellule in modo sempre più preciso e innovativo, disegnando nuove strategie di cura delle malattie.
Nonostante qualche previsione forse affrettata e comunque eccessivamente ottimistica ed alcuni passi falsi, gli studi recenti sembrano promettere una svolta nell’approccio a diverse patologie. Nella maggior parte dei casi, questi studi stanno affrontando le prime fasi della sperimentazione, ma quest’anno, per molti di loro, si prevedono i primi test sull’uomo. Negli ultimi 30 anni in tutto il mondo sono stati approvati 1992 studi clinici di terapia genica, quasi due terzi (63,9%) negli Stati Uniti e un quarto (25,8%) in Europa.
Le malattie sulle quali sono stati ottenuti questi brillanti risultati sono malattie rare. Malattia rara è considerata ogni malattia che ha, nella popolazione generale, una prevalenza inferiore ad una data soglia, codificata dalla legislazione di ogni singolo paese. L’Unione europea (UE) definisce tale soglia allo 0,05% della popolazione, ossia 1 caso su 2000 abitanti; l’Italia si attiene a tale definizione. Altri paesi possono adottare parametri leggermente diversi (USA: meno di 200.000 casi nella popolazione statunitense, quindi circa 0,08%). Molte patologie sono però molto più rare, arrivando a frequenza di 1 caso su 100.000 persone (0,001%) o più. Ma sono convinto che nessuna malattia sia così rara da non meritare investimenti in ricerca e terapie innovative.
Roberto Dominici